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martedì 16 aprile 2024

L'ottimismo del poeta del disincanto: Niccolò Grossi

02-11-2015
Si può ancora parlare di poesia al giorno d'oggi? In un mondo che va a velocità supersonica, dove tutto invecchia in fretta e il famoso "quarto d'ora di celebrità" pronosticato da Andy Warhol ha trovato un terreno esageratamente fertile con internet e i vari social, sembrerebbe di no. La poesia è espressione delle emozioni più intime, è forma d'arte gentile, non ha l'impatto immediato che può avere un video postato su You Tube o Facebook; lo scritto di un poeta non ha un volto, e non importa se la lettura di pochi versi possa far riflettere, emozionare, inquietare: anche la clip più banale, più vuota culturalmente (ma non voglio con questo generalizzare: il sottoscritto deve al suddetto You Tube parte considerevole del proprio sapere musicale) sbatte in faccia un volto, fa "rumore". Certo, se è vero, come disse Brian Eno, che i 100 acquirenti di "Velvet Underground & Nico" diventarono tutti musicisti o critici musicali, è altrettanto probabile che le miliardi di visualizzazioni dei video di Lady Gaga non creeranno delle nuove Edith Piaf e Janis Joplin...

E invece è proprio l'anacronismo della poesia a garantirle la sopravvivenza: il poeta, con le sue opere ontologicamente fuori da ogni schema, resiste e supera le mode; la poesia esisteva prima della scrittura, non ha certo problemi a calarsi nell'era del 2.0. I famosi social networks, vituperati – a ragione – per l'esasperata ostentazione del quotidiano "nulla", danno una eco formidabile a qualunque cosa, anche  alle attività culturali: chiunque può venire a conoscenza di un museo, di un'iniziativa civica, di uno scrittore o di un fotografo, e così via.

E dunque anche la poesia può essere trainata dallo "sharing" della rete, e con essa, ovviamente, chi la poesia crea, il poeta. Non è un caso che in un momento storico in cui in tanti si lamentano del non leggere, del non andare ai musei, nel non considerare a livello istituzionale la cultura tout court, ci siano in realtà tantissime persone che scrivono, che hanno voglia di trasmettere le proprie sensazioni al prossimo; condividere le proprie conoscenze, mettendole per iscritto, è cultura, perché queste conoscenze si tramanderanno alle prossime generazioni.
La poesia è una delle forme più democratiche d'arte, poiché se è vero che per fare il medico o l'architetto è necessario avere un "cursus" adeguato, per scrivere versi non c'è bisogno di alcun titolo, e dunque anche il vicino di casa può essere un poeta, il poeta della porta accanto.

Vorrei parlare di un poeta che definirei: del disincanto.  Niccolò Grossi.
Fiorentino, di professione avvocato, Niccolò Grossi ha la passione per la letteratura, maturata probabilmente al liceo classico, e forse è stata la molla che lo ha spinto a pubblicare i propri versi, o forse no, perché come abbiamo detto prima, forse non c'è niente di propedeutico al fare poesia.

Quindi la prima domanda che vorrei rivolgere all’autore è questa: è davvero così, per chi scrive? per chi si accinge a scrivere?
R: Non saprei dire; esiste un percorso intimo che ci connota. Se però esso contenga una valenza propedeutica al far poesia, mi sfugge. La scrittura, come tutte le cose, necessita di metodo e studio delle forme e della tecnica; rappresenta il momento in cui il percorso intimo viene a galla, si fa desiderio e necessità di confrontarsi con se stessi, e di far sapere ciò che si scrive. In generale, fatico a pensare alle espressioni artistiche senza un fine comunicativo, che necessariamente contempla un destinatario altro dall’autore.

D: Ma nell’epoca della commistione fra concetto di performance e arte, espressione e manifestazione, si può ancora parlare di poesia? E se sì, in che termini?
R: Se mai una forma classica del "poetare" è esistita – e io ritengo di sì, ma molti la pensano diversamente  – in ogni caso oggi mi risulta impossibile pensare alla figura del poeta tout court; piuttosto, intravedo ancora l’idea di poesia come quella di porsi domande nucleari, che vadano al nocciolo della questione. Domande che quindi possano porsi in termini generali, ma non astratti. E di comunicarli in una forma altra, simbiotica alle particolari regole d’ingaggio che lo scrittore si è posto.

D: Troviamo dunque questo nelle sue due raccolte?
R: All’essenza, sì. Sono componimenti cui prelude sempre un quesito esistenziale.

D: E sono la risposta ad esso?
R: Quasi mai; direi piuttosto che si tratta di fermi immagine, o cadenze a ritmo alterno, che si pongono attorno allo scenario, a cerchio rispetto alla domanda di fondo, che alla fin fine è sempre un galleggiamento fra la speranza e l’attesa.

D: Cosa intende per attesa?
R: Il tempo nell’istanza poetica si dilata e declina, talora addirittura si sospende. La dimensione dell’afflato ad un livello chiarificatorio, in fondo è quel che muove chi scrive a scrivere, e chi legge a leggere. O almeno, dovrebbe. Perciò l’attesa è una forma di speranza, quel "battere al muro" di cui parlava Montale, riguardo alla sua produzione più matura. Nella intima convinzione, non di saperla dire, ma di esistere in quel "bussare disperatamente".  
Forte ossimoro che rende il senso dell’attesa: se bussi in realtà non disperi. Ecco, attendere è anche riconoscere che ciò che speriamo non dipende da noi, che non ne siamo padroni, che appartiene ad un quadro comune dell’essere umano.

D: Mauro Ferrari, recensendo la Sua prima raccolta intitolata "Di passaggio" (Edizioni Joker, 2006), ha citato a tal proposito Gilles Deleuze, che diceva che il poeta è colui che torna dalle visioni "con gli occhi rossi, i timpani perforati", portando con sé il dono di una nuova comprensione, di una mappa del nuovo mondo da regalare al "popolo che manca". Come si riallaccia questo al suo discorso?
R: Attendere è chiedere, il bussare disperato montaliano. E’ dunque una domanda; guai se parlassimo solo quando abbiamo le risposte. Purtroppo mi pare di notare in generale che non sappiamo più chiedere, verbo che racchiude una
dimensione sociale, il contatto, un profilo incognito, il cui mistero è appunto all’essenza dell’afflato poetico.

D: Ciò che connota i poeti è dunque questo?
R: Non so nemmeno se sia importate connotarli, o parlare dei poeti invece che della poesia. Al più si può saper dire le cose come gli altri avrebbero sempre voluto, ma non hanno mai saputo; o, nel caso dei grandissimi, come mai si sarebbe immaginato certe cose potessero esser dette. Ma il giudizio estetico è fase successiva alla spinta iniziale alla domanda; in sé quindi forse una spinta anche etica.

D: Perché il titolo della sua seconda raccolta è in inglese ("I miss your mind", Aletti Editore, 2009)?
R: Ho scritto I miss you mind come tributo alla letteratura nordamericana del ventesimo secolo. La frase in sé è tratta da un brano di Lou Reed dedicato ad Andy Wharol, e ha, per la mia sensibilità, una rotondità concettuale inesprimibile con medesima sintesi esatta, perché appena accennata, in italiano. Non è: mi manca la tua testa, non è: mi manca la tua intelligenza, e nemmeno la tua sensibilità, profondità ecc.; it’s your mind. Certe lingue hanno caratteristiche impareggiabili. Sul titolo ho poi costruito un fil rouge che si ritrova nella raccolta e che esprime un percorso, peraltro consapevolmente interrotto per riprenderlo in altra forma.

D: In che senso?
R: L’ultimo componimento della raccolta conclude la mia esperienza in versi e lo dice chiaramente; come un: ci rivedremo nella narrativa.

D: Dunque è in ponte un romanzo? O comunque prosa?
R: Sono alle correzioni, non è esattamente un romanzo, o meglio è l’idea di romanzo che da tempo avevo in mente, in forma, per così dire, spuria. Probabilmente lo chiamerò "I miss your mind".

D: Raramente uno scrittore intitola due sue opere, per quanto una in versi e l’altra in prosa, con lo stesso titolo. Come mai?
R: L’uno è in certo qual modo la prosecuzione dell’altro, sotto profili linguistici e narrativi. Perfino la trama del romanzo rimanda a quella della raccolta del 2009.

D: La sua raccolta di poesie ha una trama?
R: Sì, per la verità entrambe le raccolte, anche "Di Passaggio". La seconda però sperimenta maggiormente le possibilità del ritmo narratarivo negli schemi in versi; per questo, anche, può dirsi una sorta di prequel del romanzo.

D: La commistione dei generi è davvero così forte al giorno d’oggi?
R: In realtà nella storia della letteratura vi sono innumerevoli prove di commistione e sperimentazione; ho però l’impressione che siamo vicini ad un punto di tale sovrapposizione, da dover forse ripensare le definizioni, se davvero di
esse vi è bisogno. Ma per rispondere alla sua domanda, direi di sì; e questo è al contempo fortemente spaesante e interessante. Il rischio di nutrirsi di sovrastruttura è reale, ma vale la pena correrlo.

D: Perché si legge sempre meno poesia?
R: Perché la si studia meno, e ha un valore, anche sociale, mutato, e  forse diminuito, rispetto al passato. Ma, quand’anche fosse, amen. Poesia, prosa, saggi o romanzi, teatro: non hanno importanza le primazie, conta leggere. Se la
gente non legge, il problema – esistenziale, sociale, educativo,  conoscitivo – non è la morte della poesia...è che la gente non legge, che mi pare questione ben più seria.

D: Come lo si può evitare?
R: Non conosco medicine al riguardo, ma ora che mi ci fa pensare, la prima cosa che dovremmo dire ad ognuno di noi è: ehi, a volte nemmeno le istruzioni del bugiardino le capisci alla prima, cosa ti costa evitare di chiudere quel libro solo perchè ti sembra difficile? Ecco, un inizio come un altro. Poi se la poesia morirà, ce ne faremo una ragione. Sinora non è mai successo, e peraltro l’essere umano è bravo a concedere seconde vite cambiando etichetta alle cose.

D: Mi sembra che il suo approccio alla problematica sia in fondo molto ottimistico...
R: Perché, abbiamo altra scelta?  

Leonardo Signoria