Le ragazze e i ragazzi non ci sono, con i loro occhi spersi, a volte sgomenti ma sempre attenti. O meglio: ci sono, ma collegati da remoto con i loro computer. Manca anche la presenza fisica dei testimoni, pure loro collegati da casa. Manca il treno che sarebbe dovuto partire per Auschwitz e Birkenau e che l’emergenza sanitaria non ha reso possibile. Appare tutto un po' strano in questo giorno della memoria. Ma il viaggio – nella storia e nella vita vissuta delle persone, di chi ha subito violenze e di chi è sopravvissuto – c’è stato anche stavolta, nonostante tutto.
Al Cinema La Compagnia si è svolta l’iniziativa che la Regione Toscana ha organizzato per la ricorrenza della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, nel 1945. In undicimila hanno seguito in diretta le quattro ore di racconti e ricordi (clicca per vedere il video), rimbalzando sulla pagina Vimeo del Cinema La Compagnia. Ma lo streaming può essere recuperato anche in differita e a meno di due ore dalla sua conclusione gli accessi erano già saliti ad oltre diciassettemila.
Il primo obiettivo, perché la memoria diventi davvero coscienza, è conoscere. Lo scriveva Primo Levi. Ma occorre evitare anche di farne solo un omaggio alle vittime, per dirla con le parole più recenti della scrittrice Elena Lowental. Da venti anni la Regione ricorda quello che è stato e lo sa bene. C’è il rischio di scadere nel cerimonialismo: invece è necessario sviluppare nei giovani il senso critico, vero vaccino di fronte ad una scheggia impazzita della storia che alla fine potrebbe anche ritornare.
Forte è stato il messaggio contro l’indifferenza, la maggiore alleata dei fondamentalismi che hanno generato le più grandi aberrazioni del genere umano: quell’indifferenza che ha aiutato anche la deportazione e persecuzione degli ebrei e di tanti altri 'diversi' e la più grande tragedia del Novecento.
Sul palco lo ripete il presidente della Toscana Eugenio Giani, che ricorda quanto importante sia vigilare ed intervenire prima che il virus dilaghi. Prima di arrivare sull'orlo del cratere che distrugge l’umanità e porta alla soppressione del diverso da te, chiunque sia. La deportazione nei campi di sterminio non inizia nel 1943. I prodromi, in Italia, furono le legge razziali del 1938, firmate dal re in mezzo ai boschi della tenuta di San Rossore a Pisa, perché era a caccia e non voleva perdere troppo tempo. Oggi sono le fakenews che dilagano sui siti e nei social. “Ricordare – dice Giani – non è solo guardare al passato ma proiettarsi sul futuro: un lavoro continuo e attento tutto l’anno”.
Lo ricorda Ugo Caffaz, testa ed anima fin dall’inizio, venti anni fa, del Treno della memoria toscano, il primo organizzato da una Regione. “La storia insegna ma non ha scolari” dice, citando Gramsci. Lo sottolinea l’assessore all’istruzione e alla cultura della memoria, Alessandra Nardini, che invita a raccogliere l’eredità dei testimoni e a non abbassare la guardia di fronte all’accondiscendenza verso rigurgiti nazisti e fascisti, contro chi nega ciò che è stato. Lo ricorda ancora il presidente del Consiglio regionale, Antonio Mazzeo, che ammonisce sul sentirsi ‘altro’ rispetto a ciò che accade e che vorrebbe che un treno della memoria partisse non ad anni alterni ma tutti gli anni. Lo ripetono, più volte, Camilla Brunelli e Luca Bravi del Museo della Deportazione e della Resistenza di Prato, conduttori dell’evento. Ma lo ripetono anche i ragazzi premiati, esempio di come, alla fine, questo modo di interpretare e passare il testimone della memoria alla fine paghi. Una memoria dove sono importanti le emozioni ma anche la conoscenza.
Il viaggio della memoria di stamani inizia in Toscana, dal monte che si affaccia sul mare che è Sant’Anna di Stazzema. Qui il 12 agosto 1944 i soldati tedeschi, guidati da fascisti della Versilia, uccisero 560 uomini, donne e bambini (394 le vittime identificati. A raccontare quello che è stato e quello che va tenuto a mente per il presente e per il futuro è Enrico Pieri, Aveva dieci anni allora e riuscì a sopravvivere, unico della famiglia. Oggi, da alcuni mesi commendatore all’Ordine al merito della Repubblica, ci ricorda l’importanza di sentirsi ed essere europei. “Quando emigrai in Svizzera capii che non si doveva e non si poteva più odiare” dice. Non vuol dire dimenticare: tutt’altro. Ogni anno Enrico racconta, instancabile, ai trentamila giovani in visita a Sant’Anna ciò che è successo. Le sue parole ci ricordano però come l'Europa nasca a Sant'Anna di Stazzema, a Marzabotto, nei campi di concentramento ed in ogni altro luogo dove guerra, odio e violenza hanno creato devastazione.
Da Buenos Aires in Argentina, all’altro capo del mondo, rimbalza la voce di Vera Vigevani Jarach, testimone di due tragedie del Novecento ed altrettanti crimini di Stato: la persecuzione contro gli ebrei di nazisti e fascisti (il nonno finito nel fumo di un camino ad Auschwitz, la sua famiglia discriminata delle leggi razziali) e poi, dopo essere fuggita in Argentina, la scomparsa della figlia ‘desaparecida’ nel 1976, vittima di un’altra dittatura. Ricorda, durante una delle sue partecipazioni al Treno della memoria toscano, i dialoghi con i ragazzi fino a notte tardi nel viaggio di ritorno: stanchi ma ancora desiderosi di capire e di conoscere. Ha fiducia nei giovani. E lo dice. Li invita a lottare per un mondo “migliore di quello che è stato e che ancora è”: perchè “non è detto che un’utopia non diventi realtà”. Da marzo dell'anno scorso la pandemia l’ha costretta a chiudersi nella sua casa argentina, ma questo non le ha impedito di collegarsi con tutto il mondo e continuare a portare, attraverso il web, il suo messaggio. Instancabile madre di Plaza de Mayo. “Da noi – annota – si ricorda tutto l’anno: è obbligatorio ricordare nelle scuole il dramma della dittatura che abbiamo avuto negli anni Settanta. La prima volta che ho partecipato in Italia al Giorno della memoria mi pareva curioso che il ricordo dovesse essere solo un giorno l’anno. Ogni volta però che sono stata in Toscana forte è stato l’abbraccio dei giovani”.
Dopo Vera è il momento di Kitty Braun, fiumana ‘adottata’ da Firenze all’indomani della Seconda guerra mondiale, deportata con la mamma ed il fratellino Roberto, ad appena nove anni, per cinque mesi a Ravensbruck, il lager delle donne, e poi Bergen Belsen, dove è morta anche Anna Frank. Piccola e già grande a raccontare fiabe ogni giorno agli altri bambini del campo. “Quando gli inglesi sono arrivati a liberarci avevo le gambe atrofizzate – spiega - . Eravamo stati costretti stipati nelle baracche, distesi sul pavimento con i ginocchi piegati. Ed eravamo tutti coperti di escrementi. Dei soldati vestiti di bianco e con le mascherine ricordo gli occhi increduli e pieni di orrore per ciò che nel campo avevano trovato”. Più che la fame, che pure c’è stata, rammenta il freddo patito, il materasso con cuscino del primo giorno dopo la liberazione, la morte del fratellino minato nel fisico dalla lunga detenzione e il ritorno a casa, dove si sono trovati davanti alla donna di servizio che li aveva denunciati e poi si era impossessata della loro abitazione.
Da Bruxelles, dove oggi vive, si collega Tatiana Bucci, con Andra una delle sorelline scambiate per gemelle e per questo sopravvissute alla selezione iniziale di Birkenau, ma scampate poi anche agli esperimenti di Mengele, quattro e sei anni quando finirono in quell’inferno. Ha le lacrime agli occhi e si confessa particolarmente scossa, emozionata e triste. “Sarà – dice - per il racconto di Kitty sulla morte del cugino Silvio, che mi ha ricordato quella di mio cugino Sergio. E’ triste pensare ad una madre che vede la morte del figlio come una liberazione: Silvio almeno è spirato però tra le sue braccia”. “O forse – prosegue – ad agitarmi è stata la notizia ascoltata stamani alla radio dei campi per i profughi, i diversi che oggi non siamo capaci di accettare, che ci sono in Bosnia e che sono praticamente campi di sterminio”.
Dalla California, dove vive con le figlie, la sorella minore Andra Bucci parla dei bambini.
“E’ preziosa la loro voce e va ascoltata – dice – Ogni volta che un bambino viene offeso è come se lo facessero a me”. “Pensate sempre con la vostra testa – ammonisce – e aiutate gli altri a farlo. Non rimante indifferenti. Aiutate chi vi è vicino ad andare avanti, dopo ogni caduta o sconfitta. Io lo sto facendo. Ieri mi sono vaccinata, perché voglio ancora parlare e raccontare”.
E i giovani rispondono. Lo fanno con la voce degli studenti dei quattro lavori scelti tra i dieci segnalati, capaci tutti di intrecciare passato e presente, la storia e le emozioni. Una cinquantina sono stati gli elaborati arrivati dalle scuole toscane, frutto del lavoro dei duecento insegnanti che quest’anno hanno partecipato ai corsi on line di preparazione al Giorno della memoria, lunghi tre mesi, organizzati dalla Regione. Tutti i lavori saranno presto pubblicati sul web, per poter essere condivisi. Ugualmente sarà per le lezioni del corso di preparazione.
Chiude la giornata la musica: note e parole di Enrico Fink, di Alexian Santino Spinelli e dell’Orchestra multietnica di Arezzo, non nuovi alle celebrazioni della memoria, sul palco per raccontare le culture dei ‘diversi’, in questo caso quella degli ebrei e dei rom che da secoli vivono nella penisola, ma anche per ricordare come la cultura italiana – e in fondo tutta la cultura – sia fatta di incontri tra diversità.
Fonte: Toscana Notizie - Agenzia di informazione della Giunta Regionale