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sabato 27 aprile 2024

"Un racconto dello SPRAR" di Gabriele Pantaleo

10-12-2019

Il testo di seguito è tratto da "Un racconto dello SPRAR" di Gabriele Pantaleo, con foto di Aboubacar Kourouma.

Quando si parla di immigrazione si pensa ormai, da molti anni, agli sbarchi, eventi di portata emotiva molto forte che hanno segnato l’opinione pubblica e catalizzato l’attenzione dei media. Più che altro si pensa alle notizie. Alle quali seguono altre notizie sulle politiche legate all’immigrazione, in particolare la gestione dei flussi e gli interventi sul territorio. O ancora si pensa alla creazione e al funzionamento dei luoghi nei quali le persone sbarcate in Italia vengono costrette ad aspettare. Già, ad aspettare... ma cosa? La Costituzione italiana prevede all’art. 10 che “lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. L’attesa è dovuta alla domanda di richiesta d’asilo ed altre forme di protezione stabilite per legge: una volta accertate le condizioni di ammissibilità, gli stranieri possono risiedere in Italia. Quasi tutti hanno sentito parlare dei CAS, centri di accoglienza straordinaria, i luoghi dell’attesa appunto, i luoghi protagonisti della maggior parte delle immagini delle migrazioni. Su questo argomento molte notizie si sono succedute e i dibattiti si sono moltiplicati. E gli SPRAR? Cosa sono? Forse a volte se n’è sentito parlare, ma cosa succede in questi luoghi? Devo dire la verità, neanche io sapevo cosa fosse uno SPRAR o quali le differenze con i CAS, né tantomeno quali fossero le attività e i gli scopi di queste strutture. Per questo ho deciso di entrare in contatto con le persone che lavorano in questi luoghi per poter toccare con mano queste realtà e vedere quali fossero le loro attività. Il racconto che segue è frutto di quella esperienza nella quale ho cercato di affrontare tutti i dubbi che avevo, per cercare di capire fino in fondo le finalità e il lavoro di questi luoghi.

Nell’ambito del progetto Indagini di integrazione: immagini e testimonianze, questa pubblicazione ha la finalità di condividere con tutta la cittadinanza la scoperta dei centri, per iniziare ad avvicinarci ad essi senza remore, sfatando tutti i nostri pregiudizi.

Innanzituto cos’è lo SPRAR: Sistema Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, è il più importante sistema di seconda accoglienza in Italia. Nato nel 2002, ha triplicato i suoi posti negli ultimi cinque anni ed oggi ospita circa 33.000 soggetti.

In tempi in cui si parla molto di fuga di cervelli è abbastanza usuale avere un amico o un parente che si è trasferito all’estero per lavoro e che racconta delle opportunità trovate, delle differenze con il territorio di origine e dei momenti di malinconia. Ma se si ascolta più a lungo, il nostro amico “emigrato” racconterà anche di corsi ed esami di lingua che ha dovuto affrontare, di diverse abitudini sociali e culturali e di tutti i servizi che, quasi con stupore, il Paese di accoglienza gli ha offerto per poter affrontare tutte queste difficoltà.

Bene, lo SPRAR è il sistema che si occupa di tutti questi problemi e, dunque, agevola l’ingresso nel tessuto economico-sociale di uno straniero, come prevede l’art. 10 della Costituzione. Con una differenze sostanziale: il sistema d’accoglienza è dedicato a richiedenti asilo e rifugiati, color cioè che sono dovuti andar via dal proprio Paese non solo perché non c’era lavoro ma perché lì le loro libertà non erano garantite.

Sono dunque persone che si trovano a fare i conti con esistenze minacciate da violenza, sofferenza e difficoltà economiche, alle quali si sommano le differenze culturali del Paese di approdo (molto più profonde di quelle che incontrano i cervelli in fuga). Il sistema non si occupa soltanto di offrire servizi, ma si articola in un lavoro complesso che coinvolge molte professionalità, di cui ci si dimentica troppo spesso. Proprio come ci si dimentica degli SPRAR.

Difatti, anche se questo sistema esiste da diciassette anni e le crisi sociali legate all’ambito migratorio sono sempre più frequenti, quante volte i media hanno dedicato approfondimenti o dossier per spiegare cosa succede in questi luoghi di lavoro e di inclusione? Praticamente nessuna. Spinto da questa domanda, ho redatto una breve indagine per capire quali siano le notizie che affrontano le iniziative di integrazione e che coinvolgono gli SPRAR nei quotidiani più venduti a Firenze e in Italia. Il risultato è deludente e cercherò di affrontarlo nelle conferenze che accompagnano questo progetto, con l’aiuto di lavoratori del settore e docenti universitari.

Il mio viaggio negli SPRAR inizia al P.A.C.I., luogo gestito dalla cooperativa il Cenacolo. Quando parlo con Mauro, coordinatore SPRAR SdS di Firenze, riguardo l’assenza di notizie e approfondimenti sui media non lo colgo impreparato. Mi racconta che in questi anni è stato contattato diverse volte da giornalisti che si dimostrarono poco informati sull’argomento. La loro unica richiesta era una storia positiva di integrazione, che magari comprendesse il viaggio terribile nel Mediterraneo e la successiva inclusione nel territorio, intesa essenzialmente come assunzione presso un datore di lavoro. Punto. La favola era stata raccontata. Neanche una parola sui percorsi di integrazione. E sullo SPRAR? Niente. Mi conferma anche che sul sistema di seconda accoglienza esistono perlopiù notizie redatte da giornali locali che annunciano l’apertura di un centro e le relative proteste. Trafiletti brevi e superficiali.

A me comunque pare incredibile: mi sembrava che anche in tv l’argomento fosse molto in voga; Mauro mi dice che nei talk show vede parlare chiunque di questi temi ma mai nessuno che lavori con i migranti. Aggiunge che l’episodio di Mimmo Lucano e di Riace aveva avuto la possibilità di riaccendere la luce sui progetti di seconda accoglienza, ma è sfiduciato da ciò che ha visto: «in tv bisogna urlare uno slogan in pochi secondi e porsi pro o contro l’argomento in auge, così non si riesce mai a raccontare la complessità del sistema».

A partire da questa conversazione, la complessità è diventata un leit motiv dei miei incontri allo SPRAR. Capirò solo più tardi che questa è la caratteristica che lo rende unico.
Incontro Matteo, coordinatore di struttura del P.A.C.I., e gli chiedo come è organizzato il lavoro, insomma cosa si fa concretamente in questi posti. Mi spiega quali sono le aree di competenza in cui è diviso il centro: Area Accoglienza, Area Formazione Lavoro, Area Alloggio, Area Legale, Area Salute e infine la Scuola di Italiano e la Mediazione.

Una struttura molto organizzata e che sembra presagire un percorso ad ostacoli. Ma tutti mi dicono che il lavoro si fa insieme, incrociando competenze e collaborando oltre le aree: un altro aspetto fondamentale di questo posto di cui coglierò il valore di lì a poco. Inoltre i numeri del P.A.C.I. presuppongono un’organizzazione serrata: nel solo complesso di Firenze ci sono una novantina di ospiti, ognuno con il proprio vissuto e le proprie necessità.

La volontà del sistema di accoglienza è quella di creare un progetto che segua delle tappe pre-ordinate, ma che allo stesso tempo si modelli sulle necessità e sulle volontà dei soggetti. Al contrario di qualsiasi luogo comune e di qualsiasi fake news, il fine di queste strutture è rendere autonomi i soggetti nella società in cui sono arrivati ed il primo passo in questa direzione è riconoscere la loro autonomia. Per questo il progetto viene illustrato agli ospiti in un importante colloquio di accoglienza, in cui si firma un contratto di accettazione. Di questo parlo anche con Sara che svolge questo ruolo delicato e importantissimo. Psicologa di formazione, ha bene in mente le difficoltà del lavoro: «devi saper veicolare tutte le informazioni del caso e saper scegliere come dirle». E non è solo una questione di lingua: «bisogna anche affrontare le paure», mi spiega.
«Molti ragazzi arrivano qui dopo due anni passati nei CAS a non far quasi nulla, sono pieni di paura ma anche di rabbia. Devi intuire tutto questo e giostrarti, sapendo andar oltre il linguaggio che potrebbe essere una barriera.

Il linguaggio non verbale resta centrale nel mio lavoro», mi racconta Sara, «sulle emozioni siamo tutti uguali: lui ha paura come tu hai paura. Ma devi sapere anche che in alcune culture le emozioni vengono espresse diversamente o magari vengono tenacemente taciute, in questi casi devi saperti muovere su altri linguaggi e cercare un altro tipo di comunicazione». Senza la sua formazione da psicologa forse tutto questo sarebbe stato molto più difficile. Inizio a comprendere che la complessità di questo lavoro non riguarda solo una necessaria formazione professionale specifica, ma anche un’estrema capacità di empatia e la difficoltà di passare dall’ascolto alle azioni concrete come la formazione, il lavoro e le necessità quotidiane.

Il P.A.C.I. è una delle poche strutture in Italia ad avere una scuola di italiano interna e per Mariangela, facilitatrice linguistica, questo è uno dei suoi punti di forza.

«Spesso i centri di accoglienza si affidano alle scuole presenti sul territorio, una scelta che anche noi facciamo e che è coerente con il percorso di autonomia che vogliamo costruire per i soggetti, per integrare la vita dello SPRAR con la vita della città. Ma tra i nostri ospiti ci sono degli analfabeti e delle persone che non hanno ancora raggiunto un livello A1 richiesto nella maggior parte delle scuole di italiano. Per questo abbiamo deciso di concentrarci su di loro».

La prima domanda che le faccio è che cosa si intende con il termine facilitatrice. «Indica un approccio diverso all’insegnamento. La tradizione dell’insegnamento era radicata su un passaggio inerte di conoscenze: regole grammaticali, lessico ecc. Ora per fortuna questo approccio è stato superato anche nell’insegnamento classico, ma qui il nuovo approccio ha un valore in più: serve per facilitare l’accesso alla lingua.

Nella comunicazione, una facilitatrice sta attenta al lessico, trovando sinonimi semplici ed evitando tempi verbali in disuso come il passato remoto. D’altra parte, la facilitatrice deve cercare di rendere lo studente partecipe, ad esempio non gli spiega la regola grammaticale, ma lo invita a comprenderla insieme, nell’uso. Così l’accesso alla lingua si co-costruisce. Inoltre in classe si usa un approccio collaborativo, se uno studente con un livello maggiore parla una lingua madre prossima a quella di uno studente con un livello inferiore, può aiutare il compagno utilizzando anche la lingua madre. Si creano in questo modo anche nuove occasioni di conversazione e nuove possibilità di scambio tra gli studenti stessi». Penso sia un lavoro molto lungo e che richiede da parte degli ospiti molto impegno e tempo, che forse loro preferirebbero utilizzare nella ricerca del lavoro. La scuola di italiano, mi spiega Mariangela, non è avulsa dal contesto, è immersa nello SPRAR, completamente determinata da un lavoro di équipe. Il contatto con gli educatori di riferimento e con l’area lavoro è costante. «Nell’ultimo anno abbiamo messo a punto una collaborazione più stretta con quest’area: organizziamo dei laboratori pratici in cui uniamo la facilitazione e la formazione. Per tutti è molto utile: puoi monitorare le situazioni pseudolavorative, la capacità di stare in relazione in contesti simili e i progressi della lingua. Si interviene nei casi di lessico specifico facendo facilitazione e allo stesso tempo si crea per i ragazzi l’occasione di comunicare con soggetti esterni e iniziare a fare formazione».
Ma come si fa a fare il facilitatore? «Laurea in Lettere, certificazione DITALS e continui aggiornamenti. Non si finisce mai», mi dice Mariangela, «lo studio serve, serve moltissimo, ma l’esperienza in questi casi serve di più. Perché insegnare qui significa entrare davvero in contatto con gli studenti. Ed è stimolante perché ti metti continuamente in discussione, hai quotidianamente a che fare con differenze culturali: ogni volta scopri l’approccio giusto per permettere la comunicazione».
Continuo a incontrare Matteo che mi fa conoscere tutti gli operatori e mi lascia i loro contatti, mentre vengo invitato da Mauro a visitare anche un altro centro in provincia di Firenze per vedere, mi dice, come funziona una realtà più piccola.

« […] è stimolante perché ti metti continuamente in discussione, hai quotidianamente a che fare con differenze culturali: ogni volta scopri l’approccio giusto per permettere la comunicazione»

Quando arrivo a Dicomano, un paesino nel Mugello, trovo lo SPRAR dentro una palazzina, a ridosso di una chiesa in disuso, nella quale ci sono 28 ospiti. Valentina è referente della struttura e si occupa anche dell’area lavoro.

Il team qui è più ristretto ma l’approccio è lo stesso: si lavora in equipe, ci si confronta e le decisioni sui progetti vengo prese insieme e con i ragazzi. Il dialogo con Firenze è costante, per confrontarsi e scambiarsi prassi. Metto Valentina di fronte a un luogo comune che mi è capitato di sentire fin troppe volte: questi stranieri vengono ospitati, si fornisce loro vitto, alloggio e infine gli si trova lavoro senza che debbano muovere un dito.

Valentina mi racconta che innanzitutto i soli servizi offerti dallo SPRAR sono i corsi di formazione professionale, che di solito durano due mesi, e la ricerca di un tirocinio in azienda, anche questo di due mesi circa. I corsi di formazione non sono obbligatori: alcuni ospiti hanno esperienze pregresse di molti anni e si può proporre all’azienda direttamente il tirocinio.

Alla fine del tirocinio non c’è obbligo di assunzione da parte dell’azienda ma per i ragazzi è un momento di confronto con la realtà lavorativa e con le persone del posto e di solito, anche se non segue un’assunzione, è una buona molla motivazionale e un’occasione per farsi conoscere. Gli ospiti devono quindi essere molto attivi.

A parte questo, i ragazzi continuano ad essere preparati all’autonomia, c’è formazione su come si scrive il curriculum vitae, come si cerca lavoro, come ci si iscrive al centro per l’impiego. Poi è tutto sulle loro spalle. Mi chiedo come sia cercare lavoro per uno straniero in un piccolo centro di provincia. Valentina mi racconta che la realtà è un po’ diversa rispetto a Firenze; ma non mi dice quello che mi aspettavo. A Dicomano la presenza di migranti non è mai stata molto accentuata; inoltre la creazione di un CAS nel paese, prima dello SPRAR, ha contribuito a creare delle angosce nella popolazione.

«All’inizio non è stato facile proporre persone per i tirocini, ma con gli anni la situazione è migliorata. Noi abbiamo cercato di farci conoscere, di mediare e parlare con artigiani e commercianti e questo ha dato buoni frutti. Adesso, grazie al passaparola di esperienze positive e di qualche assunzione nella zona, sono le aziende che ci chiamano per chiederci se ci sono ragazzi disponibili per il tirocinio».
Rimango felicemente basito, ma Valentina continua: «invece la ricerca dell’alloggio è veramente difficile. In questo ambito si avverte che la gente è più restia e diffidente. Difatti molti ragazzi trovano lavoro fuori e cercano casa altrove, spesso verso Firenze dove ci sono realtà lavorative più grandi».

Valentina e il resto dell’équipe non parlano mai esplicitamente di razzismo, anche se mi raccontano che negli uffici pubblici la situazione è sempre stata difficile: dal Pronto Soccorso agli uffici degli enti locali gli episodi spiacevoli sono stati, e sono tuttora, frequenti ma non sono mai sfociati in violenza. Gli operatori sono fiduciosi, credono che con il tempo la situazione possa migliorare, soprattutto parlando e facendo conoscere le loro attività ai cittadini. La sera parlo con alcuni ragazzi che sono tornati dal tirocinio o dal lavoro, mi sembrano tranquilli e sanno essere anche loro fiduciosi.

Il viaggio a Dicomano è stato davvero l’occasione di osservare una realtà diversa e mi ha lasciato qualche dubbio sulla questione dell’alloggio: al termine della loro permanenza o quando hanno trovato un lavoro gli ospiti devono cercar casa. É il momento che aspettano da anni: rendersi autonomi, vivere da soli, pensare davvero al futuro. Eppure la ricerca dell’alloggio è forse il momento in cui è necessario sfoderare tutta la propria pazienza e determinazione. Ne parlo con Enrico che lavora nell’area alloggio al P.A.C.I. e mi racconta che le difficoltà non sono solo quelle di cui mi parlava Valentina ma ce ne sono altre, più profonde. I nuovi decreti legge, che sono stati chiamati ‘decreti sicurezza’, voluti dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, hanno modificato le condizioni di accesso agli SPRAR, eliminando soprattutto due categorie: i richiedenti asilo (che potranno entrare solo quando la richiesta sarà effettivamente verbalizzata) e i cosiddetti umanitari.

Da una parte, dunque, le persone devono aspettare molto più tempo nei CAS in attesa dell’asilo; dall’altra, coloro che fanno richiesta di permesso umanitario non potranno accedere alla seconda accoglienza. Inutile dire che queste leggi negano tutto l’impegno del sistema di accoglienza per rendere gli immigrati autonomi e permettere loro di lavorare e contribuire economicamente alla società, lasciando per strada un numero maggiore di persone rispetto a prima. Il passaggio burocratico crea enormi difficoltà ai lavoratori e agli ospiti che sono già negli SPRAR con i permessi umanitari, ad esempio, e che per fortuna non vengono mandati via ma possono concludere il loro percorso. Una delle difficoltà che riguarda la ricerca dell’alloggio è che, prima dei decreti legge, i permessi umanitari ed altri permessi si trasformavano in permesso di soggiorno senza la residenza ma con una serie di altri documenti e requisiti; ora, invece, si pretende la residenza che, mi dice Enrico, «è sempre un aspetto delicato del percorso. I proprietari di casa sono timorosi e sono influenzati dalle leggende metropolitane. Alcuni addirittura cercano di mettere come condizione del contratto l’impossibilità di trasferire la residenza; ma se si ha davanti un contratto di quattro anni più quattro, non si può imporre questa condizione».

Qual è dunque il ruolo dell’area alloggio, mi chiedo, a parte sfatare tutti i luoghi comuni, mediare e stare attenti ad eventuali irregolarità? «La prima fase è la formazione: insieme alla scuola di italiano si spiega come è fatto un appartamento, cosa sono le bollette e dove si pagano, come e dove si paga l’affitto. Un lavoro costante che mette in gioco diverse aree dello SPRAR. Poi ci sono i contributi in uscita, ovvero dei sussidi economici per assicurare l’autonomia dei soggetti nel primo periodo fuori dal centro». Questo potrebbe essere un tema molto delicato, penso, un bel colpo a favore della propaganda e dei luoghi comuni; gli chiedo di spiegarmelo. La prima notizia è che ad alcuni tipi di contributi i fondi sono stati tagliati. Inoltre, il contributo d’affitto può durare al massimo sei mesi e varia la sua durata a seconda dei fondi disponibili e delle necessità del progetto.

Osservo che queste piccole garanzie, insieme alla mediazione degli operatori, potrebbero essere un punto a favore per i proprietari di casa. «A volte sì. Non sempre. Noi siamo presenti alle prime telefonate, che comunque i ragazzi effettuano da soli. Qualche tempo fa le facevamo noi, ma non credo sia il modo giusto di portarli verso l’autonomia; e nonostante tutto il rapporto diretto fa più presa. Se telefoniamo noi, il proprietario ci chiede perché non ha parlato il ragazzo in prima persona ed è una critica ragionevole. Anche per il contributo d’affitto si ragiona allo stesso modo: noi potremmo pagare direttamente il proprietario, ma preferiamo che lo faccia il ragazzo». L’autonomia torna prepotentemente anche su un terreno scivoloso come quello della casa e del denaro. Tralasciando le condizioni e le concessioni, c’è un discorso importante che Enrico mi fa durante il nostro incontro e che verrà ripreso da più operatori:
«Questi ragazzi non devono essere trattati come ‘poverini’, sono persone in carne ed ossa, con difetti e qualità. Devono solo essere stimolati a prendersi i propri spazi con la dignità e l’orgoglio di cui hanno diritto. Esattamente come noi! Proprio come noi devono essere istruiti all’utilizzo di tutta una serie di strumenti, per esempio giuridici, che sono complicati ma che permettono di non cadere nell’illegalità e che aiutano a rendere solido il tessuto produttivo e sociale. A farne un tessuto capace di resistere».
Ineccepibile. Ed espresso con forza, da chi ogni giorno incontra difficoltà anche solo nel parlare con un ragazzo che si è visto chiudere bruscamente la telefonata in faccia solo perché straniero. Una forza che cerca di trasmettere agli ospiti del P.A.C.I.: «l’obiettivo è il dato di realtà. Noi diciamo subito ai ragazzi che la ricerca dell’alloggio è difficile. Che le loro richieste, magari di un monolocale, sono difficilmente esaudibili. Che il razzismo o, chiamalo come vuoi, c’è. Ma poi c’è tutto il resto. Hai imparato a parlare l’italiano, hai un lavoro e dunque hai tutte le possibilità per stare là fuori!»
Enrico è laureato in Scienze Politiche e Relazioni internazionali; sa bene, come tutti i lavoratori dello SPRAR, in che contesto si muove e riconosce subito le bugie che vengono dette sul loro lavoro e sui progetti di integrazione in generale.

Ma quando vivi le bugie in prima persona te ne accorgi subito, non c’è bisogno di conoscere minuziosamente le pratiche della politica o della propaganda. Federica è laureata in Antropologia e ha conseguito un Master in Diritto delle Migrazioni; parliamo molto del suo lavoro e della necessità di una formazione adeguata per raggiungere degli obiettivi e lavorare bene.

«Questi ragazzi non devono essere trattati come ‘poverini’, sono persone in carne ed ossa, con difetti e qualità. Devono solo essere stimolati a prendersi i propri spazi con la dignità e l’orgoglio di cui hanno diritto. Esattamente come noi!
Proprio come noi devono essere istruiti all’utilizzo di tutta una serie di strumenti, per esempio giuridici, che sono complicati ma che permettono di non cadere nell’illegalità e che aiutano a rendere solido il tessuto produttivo e sociale. A farne un tessuto capace di resistere».


Federica si occupa della presa in carico dei progetti di soggetti vulnerabili: lo SPRAR divide tra ospiti ordinari, portatori di disagio mentale e portatori di disagio socio-sanitario. Queste ultime sono le persone con cui lavora Federica seguendoli nelle varie fasi del progetto dall’inclusione alla formazione fino all’accesso ai servizi sul territorio, soprattutto nel settore medico. Cerco subito di entrare nel cuore del problema: come si fa a superare la barriera culturale in un settore molto delicato come quello della salute. Troppo spesso infatti diamo per scontato che la medicina sia una legge inoppugnabile e invariabile invece le costanti campagne sulla ricerca cercano di ricordarci che non è così, che c’è bisogno di tempo e di studio per trovare le risposte alle tante domande che sono ancora insolute. Noi ci fidiamo di questo sistema, che ha prodotto indubbiamente dei risultati sorprendenti, e affidiamo il nostro corpo alle prove della medicina; ma quante terapie cambiano a seconda della persona, delle sue abitudini fisiche e psichiche!

[…] provate ad immaginare di essere catapultati improvvisamente in una società dove ogni vostra singola abitudine legata alla salute è cancellata e, non cononscendo nulla della medicina di questo posto, vi ritrovate a dovervi affidare ad un uomo in camice bianco di cui non capite una parola.

Ma quando si parla dei problemi che la burocrazia e il razzismo pongono inutilmente nelle vite di questi ragazzi e nel suo lavoro, non ha dubbi: «molti hanno capito come funziona il sistema e semplicemente non ti credono.
Loro, più di noi, hanno sperimentato la terribile burocrazia e oramai credono che ciò che gli diciamo sia una delle tante bugie che si dicono in questo Paese. Loro si presentano da soli in un ufficio e non gli fanno fare niente, se andiamo noi ad accompagnarli magicamente la pratica si sblocca e allora pensano: dove sono le regole? Questo crea tanto malessere e tante tensioni».

Ricordo che i miei nonni storcevano il naso quando mi fidavo ciecamente dei medici e assumevo medicinali di cui non conoscevo la composizione. Ebbene, provate ad immaginare di essere catapultati improvvisamente in una società dove ogni vostra singola abitudine legata alla salute è cancellata e, non conoscendo nulla della medicina di questo posto, vi ritrovate a dovervi affidare ad un uomo in camice bianco di cui non capite una parola. Non solo perché parla un’altra lingua: ma perché non avete idea di cosa siano le transaminasi e come funzionano! A proposito: qualcuno sa come funzionano? Ma andiamo avanti.

Federica ha il compito complesso di affrontare quotidianamente queste situazioni: «per chi ha problemi fisici gravi che, spesso, si sono presentati all’arrivo in Italia e quindi a livello simbolico sono collegati ad un viaggio e ad un arrivo, molte cose sono difficili da accettare. Soprattutto una dimensione di cura che è completamente diversa dal paese di provenienza.

In queste situazioni il rapporto che si instaura con le persone è fondamentale: si cerca di fare un percorso sulla consapevolezza della malattia e anche sulla messa a confronto tra la cura (o l’assenza di cura) nel Paese d’origine e la cura proposta in Italia. Sono interessanti anche le interazioni che si instaurano con le famiglie di origine, le quali spesso fanno proposte o danno consigli. Si intrecciano così i sistemi di cura in un modo che può effettivamente essere proficuo».

Per Federica sarebbe impensabile fare tutto questo senza la giusta formazione: «secondo me è importante lavorare con la consapevolezza; sapere chi mi trovo di fronte, che percorso migratorio ha avuto, quali sono le strategie che si mettono in gioco, i rapporti che nascono tra l’operatore e il soggetto. La formazione antropologica mi ha aiutato tantissimo sulla conoscenza dei contesti migratori, delle interazioni tra culture e mi aiuta nel lavoro quotidiano di presa in carico. Dopodiché sentivo che mi mancava qualcosa: come funziona l’apparato giuridico, quali i diritti e i doveri, che sono altrettanto importanti».

Perché parte del suo lavoro consiste nel costruire l’accesso ai servizi per i soggetti, insegnandogli come muoversi tra i vari uffici e sportelli. E qui purtroppo le mancanze sono molte, come ricordava all’inizio, forse per razzismo o forse solo per mancanza di formazione del personale. Ammette che se lei non avesse anche una buona conoscenza a livello giuridico, non potrebbe ottenere molti dei risultati a cui giunge.

Dopo tante interviste, confronti e dubbi fugati mi sembra incredibile che i mondi culturali siano costantemente in contrasto: con una piccola dose di pazienza e curiosità tutto ciò che mi è stato raccontato, anche se lontano dalle mie abitudini, diventa perlomeno comprensibile, pur nella sua complessità. Forse perché ho rivisto parte del mio percorso migratorio e di crescita. Quando, dodici anni fa lasciai la mia piccola città della Puglia, l’entusiasmo delle novità prevaleva senza dubbio sulle paure, ma poi ho scoperto le ‘differenze’, quell’insieme di abitudini che sembrano separarti anni luce dalla gente che incontri lontano da casa tua. Eppure ora quelle differenze non esistono più, non sono più distanze tra me e gli altri, ma sono diventate nuove possibilità di conoscenza, di scoperta.

Sono parte dello stupore che anima la mia quotidianità di migrante interno: e le mie differenze sono diventate parte della quotidianità degli autoctoni.

E quando guardo indietro agli sforzi fatti per comprendere e conoscere quelle differenze, per capire come comunicare le mie differenze e come queste venivano comunicate dagli altri a me, beh tutto questo (e molto altro) per me è semplicemente parte della vita; parte di quel che sono.
Dopo alcune settimane passate a lavorare al progetto torno allo SPRAR per incontrare Ghani, una donna somala che, parlando somalo, arabo, inglese e italiano, da molti anni si dedica a fare l’interprete e la mediatrice culturale. All’interno del centro è lei che mette in comunicazione tutte quelle vite diverse. Mi spiega subito che l’uso della parola mediatrice è ormai abusato: il suo ruolo è quello di avvicinare le persone dove c’è un conflitto o un’incomprensione non solo linguistica ma culturale. Una funzione indispensabile all’interno di un centro di accoglienza. «Anche dei semplici gesti possono risultare offensivi per culture diverse». Ad esempio, mi racconta che nella cultura somala quando due persone si parlano non si guardano in faccia, solo se una delle due è più anziana o ricopre un ruolo importante nella società può guardare in faccia le persone con cui parla. É evidente che questo può creare un’incomprensione qui in Italia: una persona che non ti guarda mentre parlate può essere reputata maleducata o distratta. Ed è qui che interviene Ghani, ma non solo: «Grandi differenze ci sono anche nelle concezioni del dolore o dei desideri per così dire. Il desiderio qui è qualcosa che si nutre fin da bambini: ‘da grande voglio fare questo’, da noi non esiste. In molti paesi africani non esiste: quello che diventerai non lo scegli, è il destino che te lo dà». E questo si nota anche nel percorso di integrazione: la scelta di un determinato lavoro non è sempre fondamentale per alcuni ragazzi che provengono dall’Africa. L’importante è lavorare, cogliere le occasioni, se poi quel posto di lavoro non è idoneo, o ci sono dei problemi, si cambia: la scelta viene dopo.
«I desideri esistono ma non prendono questa forma. Si ha in mente ciò che è meglio per se stessi e ci si muove in quella direzione, insieme al destino; ma la direzione che tu prendi, che tu scegli non è mai definitiva». Fin qui non ho difficoltà ad immaginare la situazione poiché in questi anni ho conosciuto tanta gente in situazioni simili e anche io, immerso nel post crisi finanziaria del 2008, ho dovuto dire: che lavoro voglio fare? Basta lavorare.

Ma l’attività di Ghani è particolarmente ardua: «è una grossa responsabilità. Quando un somalo mi parla e devo tradurre in italiano, si perde sempre qualche pezzo, ma devo cercare di non tralasciare nulla, non devo semplificare nulla. Devo cercare di avvicinare i due mondi e far comprendere cosa è importante, anche se è difficile o se può essere incomprensibile per l’altro». Inoltre c’è da comunicare l’organizzazione del progetto, tutte le tappe necessarie per raggiungere l’obiettivo del lavoro e dell’autonomia; e tutte queste tappe possono apparire incomprensibili a persone che hanno aspettato già due anni nei CAS e che qui si ritrovano ancora ad aspettare. «Anche perché spesso le persone non possono aspettare, magari comprendono che il percorso può farti raggiungere risultati migliori, ma non si può aspettare». Le storie personali diventano priorità reali a cui è difficile opporre l’organizzazione di un sistema, anche se c’è un buon fine all’orizzonte. Il lavoro di mediazione qui è fondamentale.
Il dialogo con Ghani è stato illuminante, perché riporta tutto il lavoro svolto negli SPRAR ad un aspetto fondamentale: la comunicazione tra le diversità. Un’azione che pur nelle sue difficoltà trova inevitabilmente una risoluzione per via della sua estrema necessità. Sta però a noi porre come priorità sociale questa necessità, affinché tutte le professionalità incontrate in questi luoghi abbiano un ruolo riconosciuto tra i cittadini. Affinché si possa comunicare senza prima dover giudicare.
Affinché la quotidianità possa essere nuovamente stimolante e percorsa dallo stupore.

Al racconto fin qui svolto sembrava mancare qualcosa: come rappresentare la complessità di queste storie? Non c’era una maniera unica per farlo e grazie al suggerimento di Elisa, facilitatrice linguistica dello SPRAR, si è pensato di affidare il racconto per immagini ad uno degli ospiti del P.A.C.I.
Così si è chiesto ad Aboubacar, appassionato di fotografia e grafica, di scattare foto del centro e dei suoi lavoratori, per mostrarci il suo punto di vista ed accompagnare questo racconto.

Gabriele Pantaleo