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domenica 19 maggio 2024

Reporter alla Pergola: ''La verità raramente è pura e non è mai semplice''

12-05-2014
A dieci anni dal successo dello Stabile di Catania, che nella stagione 2000/2001 aveva rappresentato L’importanza di chiamarsi Ernest, Geppy Gleijeses porta in scena una nuova versione della commedia teatrale di Oscar Wilde più rappresentata e amata dal pubblico. Cambiano, ma non totalmente, gli interpreti: il regista Gleijeses rimane il protagonista, affatto spaventato dagli anni che lo separano dal personaggio trentottenne di Jack, e la straordinaria Lucia Poli torna nel ruolo dell’austera lady Bracknell, il simbolo dell’ipocrisia e del perbenismo vittoriano, personaggio a cui Wilde era molto affezionato. Gwendolen e Cecily, le due “oche” accalappiatrici di uomini, sono interpretate dalle divertenti Valeria Contadino e Giordana Morandini, mentre nel buffo ruolo di doppio cameriere troviamo con piacere Orazio Stracuzzi, noto particolarmente per la sua parte nel film Il postino. A stupire è soprattutto Marianella Bargilli, che si taglia i lunghi ricci biondi per entrare nel ruolo di Algernon, l’amico dandy del protagonista, fondamentale perché è l’alter-­‐ego di Oscar Wilde. L’attrice non lascia intravedere esitazioni, perfettamente calata nel ruolo dell’uomo frivolo e superficiale. Gleijeses, definito dalla critica teatrale “l’erede di Eduardo”, si cimenta con la comicità inglese di Wilde, non facile e molto diversa dalla commedia brillante a cui il protagonista-­‐regista è abituato. L’umorismo profondo di Wilde è fatto di eccentricità e paradossi linguistici, è un’ironia sottile che non dovrebbe rivolgere lo sguardo sorniona in attesa della risata del pubblico, come Gleijeses fa, ma rimanere naturale, come se chi pronuncia le battute fosse inconsapevole della loro intrinseca comicità. Il divertimento dello spettacolo nasce proprio in campo linguistico: L’importanza di chiamarsi Ernest è una commedia di equivoci basata sul nome Ernest che tanto seduce le donne, in virtù della sua assonanza con la parola earnest (in inglese “onesto”), un gioco di parole che è difficilmente riproducibile dalla traduzione italiana, a meno che non si trasformi il nome Ernest in Franco, come alcune case editrici hanno fatto. Jack finge di chiamarsi Ernest per condurre una doppia vita: la prima seria e irreprensibile, per fare da tutore alla piccola Cecily, la seconda fatta di piaceri e feste, presentandosi come Ernest. Ma è davvero questa la verità? Jack è innamorato di Gwendolen, che lo ricambia appassionatamente, ma la madre di questa, lady Bracknell, vieta il matrimonio perché il pretendente è un trovatello. Tutto si complica ulteriormente quando il protagonista si rende conto che la fidanzata lo ama solo in virtù del suo nome. Nasceranno numerosi equivoci che si risolveranno alla fine con la scoperta della nobiltà di Jack, in verità nipote smarrito dalla governante di lady Bracknell, al quale era stato dato inverosimilmente il nome del defunto padre, Ernest. Una verità tutt’altro che semplice. La scenografia è piuttosto semplice: nel primo atto ci troviamo nel salotto di Algernon dall’arredo un po’ spoglio, composto da un divano, un narghilè e un quadro raffigurante san Sebastiano trafitto; nel secondo atto la scena è un ameno boschetto della proprietà di campagna di Jack. Se si esclude l’elemento straniante del martirio del santo, che secondo il regista dovrebbe rimandare alla sofferenza sotterranea che risiede nel testo – si tratta dell’ultima opera di Wilde e quindi è una sorta di testamento dell’autore – tutto rimanda al piacere e alla frivolezza, che il dandy inglese ha sempre trattato con estrema serietà. “Dovremmo trattare tutte le cose frivole della vita seriamente, e tutte le cose serie della vita con sincera e studiata frivolezza”. L’oggetto di studio di questa commedia è appunto la società vittoriana, criticata in maniera ironica e leggera attraverso la sua ridicola rappresentazione: si respira costantemente un’atmosfera frivola, specchio di una società fatta di apparenze e titoli nobiliari.

Elisa Grimaldi