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domenica 19 maggio 2024

Reporter alla Pergola: ''Le voci di dentro: un grande Toni Servillo per i sogni di Eduardo De Filippo''

12-05-2014

Sogno o son desto. E’ quanto non riesce a distinguere Alberto Saporito, reo di aver fatto un sogno così nitido e verosimile da crederlo realtà. Quanto basta per far incriminare un’intera famiglia con l’accusa di assassini. Un’accusa che, priva di prove, o meglio di “documenti”, condurrà fin troppo presto verso una reazione a catena di sospetti e delazioni.
Dopo la memorabile Trilogia della Villeggiatura di Goldoni, con Le voci di dentro Toni Servillo torna all’amato Eduardo De Filippo. Superstizione, morti che “parlano” e morti che non sono tali, personaggi innocenti e allo stesso tempo colpevoli, vittime, complici. Un accavallarsi di temi dal forte accento psicologico e pirandelliano, una rete kafkiana dalla quale pare impossibile districarsi che trova la propria chiave di lettura nella scenografia. Una scena minimalista, pressoché vuota, con qualche sedia, un tavolo, un armadietto, qualche fantasma che inquieto s’aggira tra giacche e cravatte. Il tutto su di un piano inclinato che sfonda il proscenio e si “butta” sulla platea, come un invito a salire, a partecipare. Un’inclinazione pericolosa, scivolosa, come quella generata dalle accuse di Alberto Saporito. Le sue affermazioni, come una pallina lasciata andare su una discesa infinita, sono un’azione irreversibile, destinata al moto perpetuo. Conseguenza è un mondo capovolto, come ci dicono a gran voce le sedie sullo sfondo, rovesciate e concatenate e sospese in aria, dove si fa vero ciò che non lo è, dove si fa realtà ciò che era solo “innocente” immaginazione.
Ne Le voci di dentro di Servillo c’è tutta la Napoli non milionaria del dopoguerra come di oggi, fatta di eloquenti fuochi d’artificio e smodate urla di strada, metafore del rumoroso brusio delle voci che, tra mente e cuore, si agitano continuamente dentro di noi. Una commedia dai risvolti drammatici e inquietanti che, è quasi inutile dirlo, non avrebbe senso d’esistere (e Servillo fa bene a non “italianizzare” tutti i personaggi) se privata di quel dialetto partenopeo che qua e là benedice i dialoghi.
Un’opera asciutta, quindi, che mette al centro l’uomo rinunciando a grossi orpelli musicali o sonori. Tendenza alla sottrazione che vede il suo contrappunto in una recitazione marcata e fortemente gesticolata, che però non (s)cade nel caricaturale o nella macchietta. Servillo e la sua compagnia lasciano libero sfogo alla profonda dimensione umana di questi tipici personaggi eduardiani, appesantiti e consci del proprio tragicomico bagaglio di debolezze e credenze, in eterno e precario equilibrio tra sogno e realtà. Per nostra fortuna il teatro di Servillo è solida realtà.

Tommaso Tronconi