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giovedì 25 aprile 2024

Trittico Beckettiano: lo specchio dell'uomo moderno al Teatro Studio Mila Pieralli

19-02-2016
Quando affrontiamo un'opera di Samuel Beckett ci sentiamo attaccati, scorticati, erosi dentro. Perché ciò che propone l'autore irlandese, una delle voci più autorevoli del "teatro dell'assurdo", è un'impietosa disanima dell'uomo moderno e della sua esistenza spogliata di senso. Che non lascia respirare, che vorrebbe farci chiudere gli occhi per non guardare, ma che invece li spalanca per farci comprendere di più, rivedendo noi stessi. Lì, rappresentati sul palcoscenico, insieme alle nostre debolezze, le nostre manie, le nostre frustrazioni. Una messa a nudo feroce e al tempo stesso rivelatrice, che si è compiuta nuovamente sul palcoscenico del Teatro Studio Mila Pieralli di Scandicci, con il felice ritorno del "Trittico Beckettiano" di Giancarlo Cauteruccio, senza dubbio uno degli interpreti di Beckett più importanti in Italia e in scena dal 18 al 20 febbraio. A 10 anni dal suo debutto e a 110 dalla nascita dello stesso Premio Nobel irlandese.

Il Trittico lega tra loro alcune delle pièce più emblematiche del lavoro beckettiano: "Atto senza parole I", "Non Io" e "L'ultimo nastro di Krapp". Tre opere diverse, ma rappresentate come fossero un tutt'uno, perché unite dalla messa in scena dei principali temi affrontati da Beckett: la disillusione, la consapevolezza di vivere un'esistenza grottesca e assurda, il senso così doloroso dell'ineluttabile, l'arrendevolezza, la passività, la disgregazione delle nostre parole. Niente ha più senso e, quel che è peggio, non possiamo fare nulla per cambiare il corso dell'esistenza.
Questo viaggio nel mondo beckettiano riproposto da Cauteruccio inizia dal bianco accecante di un deserto e dal silenzio dell'uomo; quello di "Atto senza parole I", dove in scena troviamo un corpo muto, ma la cui fisicità, la cui espressività sono di fortissimo impatto. Ad interpretarlo è un energico Massimo Bevilacqua, efficace e agile nel rappresentare l'uomo moderno privato del suo libero arbitrio. Nessuna parola (anche la comunicazione, in Beckett, non ha più senso), solo azioni snaturate di volontà, perché dettate da un uomo enigmatico che lo osserva da fuori e, impietoso, manipola i suoi gesti attraverso un fischietto, facendo ogni volta calare dall'alto oggetti che il corpo muto vorrà raggiungere e far propri. Il corpo, però, non ci riuscirà mai. Sperimenterà una frustrazione senza fine, come con quella tanica verde piena d'acqua che cercherà di prendere in tutti i modi, salendo su una pila di cubi (calati anch'essi dall'alto) o aiutandosi con una corda. Quella stessa corda che, dopo pochi istanti, cercherà di usare per impiccarsi, spinto dall'ineluttabilità della sua sorte. Meglio farla finita, che restare in questo presente così insopportabile, pare pensare. Ma niente, anche questa opzione gli viene preclusa, anche sulla sua morte non avrà diritto di scelta e il tentativo fallirà. Non ci sono strade, appigli, è tutto un deserto piatto che non vede altra scelta che soccombere. Sdraiarsi. Diventare larva. Arrendersi anche quando ciò che più desiderava, quella tanica verde d'acqua, si trova improvvisamente lì, a un solo palmo di mano. Ma lui è sfinito: la volontà ha ceduto ormai il passo alla sua inevitabile sorte. 

Dal bianco fulgido del deserto al buio assoluto di "Non Io". Il teatro viene come risucchiato, lasciato in una totale oscurità, dalla quale, anticipata da parole sconnesse, emerge improvvisamente una bocca. Solo una piccola, bocca luminosa che squarcia il nero. "Bocca" è inquieta, nervosa, inarrestabile. La sua voce, quella della magistrale e intensa soprano/attrice Monica Benvenuti, è un guazzabuglio di parole e suoni deformati, che ci investe come un fiume impetuoso. Vortici che ci fanno girare, girare, tra le sue parole ripetute, i suoi ricordi ossessivi riversati sul pubblico, decostruendo tutto. Corpo, vita, linguaggio. Bocca sta raccontando una storia, la sua storia. Ma lei ne prenderà le distanze, parlerà di questa donna in terza persona, come chiaro da quel leitmotiv "Cosa?...Chi?...No!...Lei!" ripetuto più volte durante il suo inquietante monologo, sempre più urlato, sempre più disperato. Perché la realtà è una condizione dura da accettare, non si vuole ammettere il proprio squallore (e in questo Bocca ricorda un altro personaggio beckettiano, la Winnie di "Giorni Felici"). Ma quella è la sua vita e Bocca la ripercorre, tra sforzi mnemonici, parole slegate, dolore. Lei, una donna in età avanzata ai margini della società, nata prematura e per questo abbandonata dai genitori. Una donna che ha vissuto un'esistenza priva di amore e affetto, in silenzio. Muta, ogni giorno. Poi improvvisamente qualcosa libera le sue parole e sente una voce che non riconosce. E' la sua. Tutto il corpo è andato via, è catturato dal buio, resta solo una bocca "incendiata"; un fiume di parole messo in azione da un cervello "che guizza via follemente" e che "non può più fermarsi, impazzito".

Dopo che Bocca e il suo vortice di ricordi vengono ringhiottiti dal buio, passiamo all'ultima tappa del Trittico, uno dei massimi capolavori di Beckett e forse uno dei più insoliti. Perché alla crudezza, al tormento, si uniscono profonda tenerezza, commozione. Sul palco arriva Krapp, riportato in scena da un ironico, struggente, perfetto Cauteruccio; lo scrittore fallito, il mangiatore compulsivo di banane, che cammina goffamente in quello che è sempre stato il suo unico mondo. La sua stanza, la sua scrivania, una luce sospesa, il suo magnetofono, le numerose scatole piene di bobine ben numerate. Ogni compleanno, un nastro registrato, dove annotare con la propria voce ricordi, sensazioni, illusioni. Krapp sta per registrarne uno nuovo, ma prima si mette ad ascoltare quello di quando aveva 30 anni. "Scatola 3, bobina 5". E' lì dentro che Krapp troverà l'amarezza del ricordo, del rimpianto che lacera perché niente può essere recuperato, ormai. E ritorna così il senso di impotenza, di ineluttabilità, di arrendevolezza, che sono propri dei personaggi beckettiani. Da quella bobina Krapp partirà, per tornare al passato, ad un lui che non è più lui, che è altro da sè, che l'anziano Krapp deride e ritiene un 'cretino'. Perché quel cretino rinunciò all'amore per una donna in nome di un'illusoria idea di carriera folgorante che lo stava aspettando. L'ascolto della bobina si fa quindi sofferto, arrabbiato, afflitto. Perché quella decisione, presa anni prima, lo proiettò solo verso anni di solitudine, di pochissime copie vendute, di malinconia. Eppure quel trentenne, che parlava speranzoso al magnetofono, sentiva un fuoco dentro. Ma eccolo qui, Krapp. Anziano, fallito, divoratore di bobine e banane, che accarezza dolcemente il nastro in cui racconta della donna lasciata e che, rancoroso, attacca quel giovane illuso, le sue scelte, la sua cecità. Krapp contro Krapp. Illusione contro disincanto. Sogno contro realtà. E se dalla bobina 5, della scatola 3, il trentenne con fierezza esclamava che non avrebbe mai voluto riavere indietro gli anni passati, perché sicuro del futuro glorioso che lo attendeva, il Krapp anziano ascolta, con lo sguardo fisso nel vuoto e il nastro che continua a girare. Perché lui sì che vorrebbe riavere quegli anni, ma il titolo è impietoso e non lascia scampo. Quello sarà il suo ultimo nastro e non c'è spazio per cambiare qualcosa. Solo per commuoversi. E applaudire.

di Alessandra Toni