Dal 18 marzo al 7 settembre 2022, al Museo Novecento ed al Museo di San Marco a Firenze è in programma la mostra "Giulio Paolini. Quando è il presente?" a cura di Bettina Della Casa e Sergio Risaliti.
Tra i grandi maestri dell’arte italiana del Novecento, Giulio Paolini è il protagonista di un progetto espositivo inedito, che riunisce opere della sua produzione più recente in dialogo con l’architettura rinascimentale delle sale al piano terra del Museo Novecento.
Tre artisti, tre generazioni a confronto in un gioco di incastri e rimandi fatto di coincidenze iconografiche, strategie concettuali e passioni artistiche e letterarie: Filippo de Pisis, Giulio Paolini e Luca Vitone si incontrano al Museo Novecento in un dialogo a tre voci. La nuova stagione di mostre propone un progetto espositivo sorprendente e del tutto originale, che consente di approfondire la conoscenza di tre artisti apparentemente molto diversi tra loro, rileggendone la produzione a partire da una prospettiva inedita. Tre mostre personali, separate ma interconnesse, che danno vita a un gioco di specchi e di confronti tematici.
Il titolo della mostra, Quando è il presente?, a cura di Bettina Della Casa e Sergio Risaliti, è tratto da una lettera scritta nel 1922 da Rainer Maria Rilke a Lou Andreas Salomè, e costituisce lo spunto da cui Giulio Paolini traccia una propria meditazione sul tempo e sulla nostra impossibilità di afferrarlo, combinando gli interrogativi sul ruolo dell’arte e la figura dell’artista con quelli sull’esistenza e il suo fluire. I lavori presenti in mostra, al centro di un percorso ideato dallo stesso artista, dialogano con l’architettura rinascimentale delle sale al piano terra del Museo Novecento, invitandoci a compiere un viaggio all’interno delle sue ultime riflessioni sul significato della creazione artistica e sulle sue molteplici implicazioni.
Con la peculiare raffinatezza che caratterizza da sempre la sua opera, Paolini ci introduce in una dimensione ‘altra’, toccando corde fra le più nascoste e vibranti dell’animo umano. Come in un incessante gioco di specchi, l’osservatore – con il proprio bagaglio di aspirazioni, timori, passioni – è chiamato direttamente in causa dal dispiegarsi di disegni, collage, installazioni, che ridefiniscono lo spazio e il nostro ‘incedere’ al suo interno.
«L’arte accade», è solito ricordare Paolini, citando Whistler nelle parole di Jorge Luis Borges. La meraviglia dell’arte, il suo incondizionato manifestarsi, accomunano idealmente l’artista e l’osservatore, chiamati a partecipare ad un’incessante ricerca di senso, in un gioco di rimandi spesso venato di ironia. Le opere non veicolano riflessioni sulla cronaca e la mondanità, sulla nostra società tormentata, sui fatti e misfatti della globalizzazione: in esse si manifesta l’incontro stupito dell’artista con l’arte stessa, un processo che si colloca nel nostro tempo ma che è, inevitabilmente, al di fuori di esso, superando ogni contingenza, in quanto appartenente ad una dimensione metafisica.
Nella sala cinema del museo viene proiettata la registrazione video di Teorema, balletto ispirato all’omonimo romanzo di Pier Paolo Pasolini, messo in scena al Teatro del Maggio Musicale di Firenze dal 28 aprile al 6 maggio 1999. Cogliendo la «sfida all’impossibilità del racconto» offerta dal testo pasoliniano, Giulio Paolini aveva realizzato una scenografia essenziale, il cui rigore geometrico dialoga con la fisicità di danzatori vestiti in abiti contemporanei.
Con l’installazione La pittura abbandonata, presente all’interno di una delle sale al piano terra del museo, viene rappresentata la figura scontornata di una giovane donna. È la silhouette capovolta dell’Arianna addormentata, la cui iconografia affonda le proprie radici nella statuaria classica divenendo nei secoli fonte di ispirazione per artisti e letterati. La figura appare riversa sulla riva del lago di Nemi, che trae il suo nome da un bosco sacro anticamente dedicato al culto di Diana, divinità del pantheon romano usualmente assimilata alla greca Artemide. Proprio per mano di quest’ultima, secondo una versione del mito, Arianna sarebbe stata uccisa. La rappresentazione del piccolo invaso, che prende le forme di una tavolozza, si lega quindi alle vicende che hanno avuto per protagonista la giovane, un cui braccio sembra sorreggere il grande telaio addossato alla parete, con un angolo poggiato a terra. In alto, all’estremità superiore, la struttura in legno è avvolta dal lembo di una lunga tela preparata che ricade sul pavimento. Come un grande quadro “abbandonato”, l’opera ci pone di fronte all’enigma di una ‘visione’ tradita, (così come fu Arianna nel mito: tradita e abbandonata da Teseo dopo averlo aiutato ad uscire dal labirinto in seguito all’uccisione del Minotauro).
Come un grande quadro “abbandonato”, l’opera ci pone di fronte all’enigma di una ‘visione’ tradita (così come fu tradita Arianna nel mito greco). «L’arte – suggerisce Paolini – è imitazione di un modello non dato. L’arte è l’imitazione dell’arte e non dice, perché non sa, a che cosa vuol aderire, quale sia appunto il modello da scoprire». L’opera conserva quindi «la materia intatta e ancora segreta del suo divenire», rendendo vano qualsiasi tentativo di interpretarla e di ricondurla ad un modello.
Le opere presentate al Museo Novecento vengono integrate da un collage su cavalletto esposto presso il Convento di San Marco, da sempre ritenuto dallo stesso artista il suo museo ideale. Noli me tangere, il lavoro ispirato all’omonimo affresco di Beato Angelico, ci pone di fronte al vuoto che scaturisce dalla ricerca di un contatto costantemente mancato, dando vita ad un confronto con la luminosa e leggera perfezione della pittura del frate domenicano, ricercato da Paolini sin dagli inizi della sua carriera.
Giulio Paolini
Nato a Genova nel 1940, Giulio Paolini vive e lavora a Torino. Appena ventenne perviene alla definizione di uno stile del tutto originale, come rivela Disegno geometrico, tela dipinta di bianco su cui viene tracciata una squadratura ad inchiostro. L’opera, realizzata nel 1960, viene considerata dallo stesso artista un punto di riferimento permanente nella sua produzione. Inizia infatti a delinearsi la sua riflessione sullo spazio della rappresentazione e sullo statuto dell’opera d’arte.
I lavori di Paolini chiamano in causa gli strumenti del fare artistico, la figura dell’autore e il suo rapporto con l’opera e con l’osservatore, in una ricerca che trae nutrimento dalla storia stessa dell’arte: dalla nascita della prospettiva rinascimentale alla sopravvivenza del mito nell’iconografia, fino al perpetuarsi dei modelli classici.
Alla fine degli anni Sessanta prende parte alle manifestazioni del movimento dell’Arte povera, attestandosi su una posizione di tendenziale autonomia. Svincolandosi da qualsiasi condizionamento della cultura dominante, negli anni della contestazione e dell’impegno si fa portavoce di un’arte lontana dalle rivendicazioni sociali e politiche, soffermandosi sull’enigma della visione, sull’inafferrabile relazione tra arte e oggetto, sulle sfuggenti definizioni di tempo e spazio.
Paolini si interroga sul valore stesso della creazione e della rappresentazione, esplicitando la propria indagine in sofisticate costruzioni formali e concettuali. La prospettiva, il tema del doppio, la teatralità della messa in scena caratterizzano la sua produzione matura, in cui si depositano e rivivono innumerevoli riferimenti di carattere artistico, letterario e filosofico.
Come ricorda Maddalena Disch: «Tra le principali caratteristiche del suo modo operativo figurano la citazione, la duplicazione e la frammentazione, impiegati come espedienti per inscenare la distanza rispetto a un modello compiuto e per fare dell’opera un “teatro dell’evocazione”. A questi procedimenti visivi che attingono a un vasto repertorio di riferimenti letterari, mitologici e filosofici, evocati attraverso la riproduzione fotografica, il collage e il calco in gesso, fanno da pendant allestimenti articolati e compositi, imperniati su dinamiche additive (serialità, ripetizione, giustapposizione), centrifughe (esplosione e dispersione a partire dal centro) oppure centripete (concentrazione, sovrapposizione, incastro)».
Protagonista di importanti mostre in gallerie e musei di tutto il mondo, fin dagli esordi ha inoltre associato alla pratica artistica una ricerca di tipo letterario, come rivelano le emblematiche riflessioni raccolte in diversi libri, tra cui Idem (1975), Contemplator enim (1991), Lezione di pittura, Black Out e Giro di Boa (1992-1998), La verità in quattro righe e novantacinque voci (1996), Quattro passi. Nel museo senza muse (2006), Dall’Atlante al Vuoto in ordine alfabetico (2010) e L’autore che credeva di esistere (2012).
Per maggiori informazioni: www.museonovecento.it