«Lo chiamano superficiale, questo pittore, e non si rendono conto dei novemila metri di profondità ch’egli raggiunge senza nemmeno indossare lo scafandro […] De Pisis sa regalare ai disattenti l’illusione della superficialità» Elio Vittorini
Tre artisti, tre generazioni a confronto in un gioco di incastri e rimandi fatto di coincidenze iconografiche, strategie concettuali e passioni artistiche e letterarie: Filippo de Pisis, Giulio Paolini e Luca Vitone si incontrano al Museo Novecento in un dialogo a tre voci. La nuova stagione di mostre propone un progetto espositivo sorprendente e del tutto originale, che consente di approfondire la conoscenza di tre artisti apparentemente molto diversi tra loro, rileggendone la produzione a partire da una prospettiva inedita. Tre mostre personali, separate ma interconnesse, che danno vita a un gioco di specchi e di confronti tematici.
La mostra Filippo de Pisis. L’illusione della superficialità, nata da un’idea di Sergio Risaliti, co-curata da Lucia Mannini e organizzata in collaborazione con l’Associazione per Filippo de Pisis, ospiterà oltre quaranta opere del pittore e letterato ferrarese al primo piano del Museo Novecento.
Traendo spunto dalle parole scritte da Elio Vittorini in occasione della personale tenuta da de Pisis a Firenze nel gennaio del 1933, l’esposizione indaga alcuni temi portanti della produzione artistica di una delle personalità più complesse del primo Novecento italiano.
Accusato spesso di perseguire una pittura dalla “superficialità decorativa” di matrice neo-impressionista – per via della pennellata rapida e leggera e dei piacevoli accostamenti cromatici – de Pisis ha invece costruito molti dei suoi maggiori dipinti tramite un gioco di rimandi e riferimenti, autobiografici e culturali. La «leggerezza di tocco» e la «facile contentatura negli accordi tonali» non escludevano, infatti, per Vittorini la «potenza rappresentativa» o «evocativa» o «espressiva» delle sue opere, ma anzi, gli riconosceva di saper esprimere con minimi mezzi, e quasi sfiorando appena la tela con il pennello, «l’intima vitalità delle cose».
Costruita secondo un andamento tematico, la mostra intende sottolineare questa complessità attraverso un’attenta e studiata selezione di opere nelle quali l’artista ha adottato espedienti come il “quadro nel quadro”, la mise en abyme della rappresentazione visiva, l’evocazione degli strumenti del mestiere, la composizione allegorica che talvolta funziona come un rebus.
Come già al tempo rilevato dalla critica più accorta, la magica e misteriosa sospensione tra realtà e irrealtà è protagonista delle nature morte di de Pisis (Waldemar George, 1928) anche quando è una tela vuota a sollecitare nell’osservatore una riflessione, invitandolo a indagare più in profondità il senso delle cose esibite in un dipinto e andando oltre la piacevolezza visiva della sua pittura. Scriveva sempre Vittorini: nei suoi dipinti «le cose riescono ad associarsi in atmosfere volta a volta sinistre o gloriose, cioè di meraviglia».
Sulla superficie del quadro, che di fatto è una composizione di storie e di immagini a chiave, si celano dunque messaggi, spesso con riferimenti autobiografici e si mette in guardia contro l’illusorietà della figurazione, contro la finzione che la pittura mette in scena, riconoscendo come il linguaggio figurativo si nutra della pittura e torni ad essa. Un affinamento singolare delle strategie metafisiche adottate da Giorgio de Chirico e un modo di giocare con il linguaggio, appreso grazie alla conoscenza del mondo Dada e all’amicizia con Tristan Tzara, che de Pisis sviluppa in una propria sintesi in grado di stare dentro le avanguardie con un piede nel “museo”.
Oltre ai “giochi illusionistici”, all’interno del percorso espositivo vengono indagati i richiami culturali e visivi che de Pisis ha composto attingendo a un vasto repertorio, dalla classicità al Seicento, dall’Impressionismo alla contemporaneità (Giorgio de Chirico, Carlo Carrà etc.), con una proposta di affinità che tendono al transfert.
La selezione di opere esposte, provenienti da musei nazionali e internazionali (tra cui il Centre Pompidou), da istituzioni e collezioni private, oltre che dai depositi del Museo Novecento, è arricchita dalla presenza di alcuni interventi site-specific dell’artista Luca Vitone (Genova, 1964), da sempre affascinato dalla figura di de Pisis, sia come artista sia come intellettuale. Vitone dialoga con le opere in mostra presentando una carta da parati e un’installazione, che intrecciano le vicende biografiche e artistiche dei due autori.
La mostra, inoltre, dialoga con la personale di Giulio Paolini (Genova, 1940), ospitata nelle sale espositive al piano terra del museo, creando un ponte tra tre generazioni di artisti italiani, de Pisis – Paolini – Vitone, e facendo emergere un’inedita corrispondenza tra i loro linguaggi e modalità “concettuali” di affrontare la “illusione della superficialità”.
L’esposizione sarà accompagnata dalla pubblicazione di un catalogo con contributi da parte dei curatori della mostra, di studiosi e di critici d’arte tra cui Maria Cristina Bandera, Paolo Campiglio e Luca Scarlini.
Filippo de Pisis
Nato a Ferrara nel 1896 da una famiglia di nobili origini, Luigi Filippo Tibertelli , che in seguito riprenderà parte del cognome della famiglia caduto in disuso, inizia la sua formazione artistica a casa sotto la guida di precettori. Ad appena dieci anni allestisce in soffitta la sua prima “cameretta”, dove si ritira a scrivere. Preso da studi di entomologia e botanica, vi raccoglie oggetti curiosi come erbe, conchiglie, farfalle, animali impagliati, foto e quadri. De Pisis si sente soprattutto scrittore. Scrive novelle e saggi, tiene conferenze ed è in corrispondenza epistolare con intellettuali del calibro di Giovanni Pascoli. Legge inoltre riviste d’avanguardia e frequenta i circoli futuristi. Esentato dal servizio militare, dal 1915 vive tra Bologna e Ferrara, dove studia lettere e filosofia. Fondamentale nella sua formazione è la frequentazione dei fratelli Giorgio de Chirico e Alberto Savinio, arrivati a Ferrara nel 1915 per il servizio militare: insieme a Carlo Carrà formano il nucleo della scuola metafisica. Tramite loro entra in contatto con l’avanguardia francese, Ardengo Soffici e Tristan Tzara. Finita la guerra si sposta a Roma, città che segna l’inizio della vocazione alla pittura, qui frequenta il gruppo del secondo futurismo e inizia a elaborare le sue caratteristiche nature morte. Nel 1920 la Casa d’arte Bragaglia gli dedica la sua prima mostra personale. Nel 1925 si trasferisce a Parigi, dove la sua pittura incontra il favore del mercato e dove incontra artisti come Georges Braque, Henri Matisse e Pablo Picasso. Inizia a dipingere vedute parigine, copie dall’antico, nature morte e studi di nudo, partecipando al gruppo “Les Italiens de Paris” e alle mostre del Novecento Italiano. Gli anni Trenta sono segnati sia da mostre personali che dalla presenza in rassegne come la Quadriennale del 1931 e le Biennali veneziane del 1930 e 1932. Dopo lo scoppio della guerra si stabilisce prima a Milano e poi nel 1943 a Venezia, dove si dedica alla pittura di vedute. Negli anni Quaranta si susseguono mostre, tra cui un’esposizione a New York e una sala personale alla Biennale veneziana del 1948. L’ultimo decennio della sua vita è segnato da precarie condizioni di salute a causa di una grave forma di arteriosclerosi, che nel 1949 lo costringe al ricovero. Nell’estate del 1951 viene allestita la sua prima grande antologica al Castello Estense di Ferrara. Morirà a Milano il 2 aprile 1956 e due mesi dopo la Biennale gli dedicherà una vasta retrospettiva.