Chi era John Coltrane, l’uomo e non solo il musicista; quali erano i suoi orizzonti, le sue paure, le sue ossessioni, i suoi desideri? Al di là dei riferimenti biografici, della pura cronaca, quali sono le parole che ne possono ricostruire il suono, l’impulso, la creatività? Il nucleo primigenio dello spettacolo, della durata di soli quindici minuti, è andato in scena in anteprima nell’agosto 2012, in apertura di un concerto del Living Coltrane Quartet davanti alla magnifica Cattedrale di San Cerbone di Massa Marittima. È dalla lenta elaborazione di quel primo nucleo narrativo, in un continuo scambio fra autori e musicisti – con la collaborazione di Eugenio Allegri anche durante la fase di strutturazione – che lo spettacolo ha preso forma. Già nella sua fase embrionale, il testo presentava la cifra autentica che lo contraddistingue: un racconto in prima persona che attraverso passaggi ora più visionari e sognanti, ora più discorsivi e ancorati alla realtà, rievoca la quotidiana poesia della musica – e della vita – del grande artista americano, e ne ripercorre l’universo espressivo dandone un’interpretazione personale ed originale. Proprio come fanno i brani dell’ultimo CD di Living Coltrane. Sul palco, Daniela Morozzi, dà vita a una voce, quella di Coltrane, che si relaziona in un continuo dialogo con le vicende e i protagonisti del suo tempo ma anche con i fantasmi e le angosce del suo vissuto interiore personale. Un dialogo su più registri, con salti temporali e scorci immaginifici che rendono il testo ben di più di una mera biografia. Un dialogo intenso e animato che sulla scena si concretizza anche – e soprattutto – in un interplay serrato e stringente di Daniela Morozzi con i musicisti, dove ognuno contribuisce con la propria voce alla costruzione di una storia, in un caleidoscopico quadro vivente. Né parole scritte per la musica, né musica scritta per le parole, ma un’opera compatta, a cinque elementi, elaborata passo passo in sala prove.
Il suono allo stesso tempo prepotente e dolcissimo, profondo e luminoso del sassofonista che più di ogni altro ha influenzato il panorama musicale del secondo novecento, si integra così senza soluzione di continuità con una narrazione che interpreta il vissuto umano e d’artista di Coltrane, con i suoi abissi e le sue sommità, e ne propone un’immagine concreta, ma non per questo meno poetica e visionaria. Anche in questo caso, si scrive per Coltrane e non soltanto su Coltrane. Il testo è impreziosito da un contributo del poeta Fabrizio Dall’Aglio, che – al centro dell’opera – ne riassume il senso e lo lancia verso l’apice finale, in cui Coltrane, ormai uomo maturo, musicista completo, e artista disintossicato, riesce a convogliare nel suo sax la voce potente e infinita di Dio. Gli autori, insieme a Daniela Morozzi, portano sul palco una voce che si amalgama a quelle strumentali, si fonde con loro, si propone, appunto, come il quinto elemento, che esprime gli stessi contenuti degli strumenti con la forza della parola: insieme all’emozione per la grande musica e una grande interpretazione, lo spettatore si porta a casa la sensazione di aver incontrato John Coltrane, per la prima volta così da vicino.