Non ci sono evidenze che la maggiore diffusione di specifiche forme di vita sociale in alcuni Paesi, in particolare la convivenza in famiglia tra membri di generazioni diverse, sia tra le principali cause della maggiore incidenza di mortalità da Covid 19 in quegli stessi Paesi.
E’ quanto mette in evidenza uno studio demografico internazionale, appena pubblicato sulla rivista PNAS (Proceedings of National Academy of Sciences), coordinato da Bruno Arpino del Dipartimento di Statistica, Informatica, Applicazioni dell’Università di Firenze, a cui hanno partecipato Valeria Bordone dell’Università di Vienna e Marta Pasqualini dell’Università Pompeu Fabra di Barcellona.
L’alto tasso di mortalità osservato in alcuni paesi, come l’Italia, collegato all’elevata prevalenza di persone infette anziane, ha portato a ipotizzare – come hanno fatto alcuni studiosi all’inizio della pandemia – che convivenza e contatto stretto tra persone di generazioni diverse fossero un fattore di diffusione del COVID-19 di particolare rilevanza per spiegare il disomogeneo impatto del virus tra paesi diversi.
Utilizzando dati provenienti da 19 paesi europei, i ricercatori hanno analizzato l’associazione tra tasso di letalità e numero di casi di COVID-19 per 100.000 abitanti con diversi indicatori di relazioni intergenerazionali. Prendendo in esame i dati a livello nazionale si è osservato, spiega Arpino, che “i paesi in cui è più comune che i figli adulti vivano con i genitori, la letalità COVID-19 e la prevalenza dei casi tendevano ad essere più elevati”. Ma i dati regionali riferiti allo stesso Paese hanno offerto un risultato diverso, anzi opposto. “Ad esempio, in Italia, le regioni maggiormente colpite dalla pandemia di COVID-19 erano tra quelle in cui la convivenza intergenerazionale era la più bassa”.
I risultati a livello subnazionale contraddicono, perciò, le precedenti ipotesi sul ruolo delle relazioni intergenerazionali nello spiegare la differente letalità COVID-19 tra paesi diversi.
“La nostra analisi – sottolineano Arpino, Bordone e Pasqualini - evidenzia i rischi di sovra-interpretare le correlazioni a livello nazionale. Una corretta identificazione dei fattori che contribuiscono a spiegare la diffusione e la letalità di COVID-19 è di fondamentale importanza, ma al momento non esistono prove empiriche a supporto dell’idea che le relazioni intergenerazionali siano un fattore chiave nella diseguale diffusione della pandemia tra aree geografiche diverse”.
Nel loro studio i ricercatori mettono in evidenza anche il rischio di concentrare l’attenzione solo sui rischi della trasmissione del virus a causa di contatti fisici tra i membri della famiglia. “Si rischia però di trascurare – commenta Arpino - il ruolo fondamentale delle relazioni familiari come fonte di supporto emotivo e strumentale. Teoricamente, questo supporto può persino favorire il rispetto delle restrizioni imposte durante le fasi di lockdown e post-lockdown, limitando così la diffusione e la mortalità dovuta al COVID-19. Inoltre, un più forte sostegno familiare può ridurre la probabilità per le persone anziane di dover essere ricoverate in case di cura, che hanno giocato un ruolo cruciale nella diffusione dei casi di COVID-19”.
Dato che i contatti sociali non richiedono necessariamente una co-presenza fisica e che allo stesso tempo la co-presenza fisica non implica contatti sociali, “suggeriamo di sostituire il termine distanza sociale con il più appropriato distanza fisica – concludono Arpino, Bordone e Pasqualini - quando si fa riferimento alle misure dedicate a limitare il rischio di trasmissione del virus”.
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