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mercoledì 25 dicembre 2024
Programmazione settimanale del Cinema Spazio Uno di Firenze
30-05-2019
Ecco la programmazione del cinema Spazio Uno di Firenze (via del Sole, 10), questa settimana saranno proiettati i seguenti film:
"QUEL GIORNO D'ESTATE" di Mikhael Hers Nanni Moretti ha scelto questo film per programmarlo al suo Nuovo Sacher a Roma! I percorsi della memoria, la geografia, il tempo, il luogo e il momento sono i grandi temi di Mikhaël Hers, abilissimo a creare echi e ricordi futuri, a tradurre le variazioni del cuore in maniera fisica e sensoriale. Con "Amanda" (titolo originale del film) -presentato a Venezia nella sezione "Orizzonti"- affronta ancora una volta le conseguenze della morte di una giovane donna sui suoi cari, lavorando all'ombra di un'assenza e alla luce di un affetto. L'affetto che lega David alla sua nipotina e che li conduce dall'appartamento alla scuola, dal parco alla stazione, catturandone l'inerzia, il languore, i movimenti leggeri in cui respirare la felicità di stare insieme, l'eccitazione di camminare accanto ritardando il momento della separazione. Perché affrontare il vuoto è più facile in due ma è più difficile in estate. In estate le porte e le finestre si aprono, si esce più volentieri, si viaggia leggeri, dentro e fuori si annullano, i parchi prolungano gli appartamenti come un giardino che entra in salone col sole. Mesi che Mikhaël Hers racconta scandendo il ritmo della sofferenza che si allenta grazie a un sorriso, una cena in allegria, una passeggiata, una notte racchiusa in un abbraccio tra zio e nipote. E la tenerezza finisce allora per essere il segno di un’opera che guarda costantemente alla vita. Un film che è un inno alla sopravvivenza e all’amore, ma che non dimentica di raccontare gli anni bui che stiamo vivendo. Ennesimo tassello di un cinema in costante fermento, "Quel giorno d'estate" è anche un ritratto della Francia. Una fotografia intima, fragile, pronta ad essere strappata. Non per questo rassegnata, bensì protesa con lo sguardo verso il futuro. Un paese nascosto dietro il volto espressivo della piccola e bravissima Isaure Multier che non sfigura affatto accanto a Vincent Lacoste, attore tra i più dotati della generazione dei trentenni.
"TAKARA La notte che ho nuotato" di Alexis Michalik Frutto di una curiosa collaborazione alla regia tra Damien Manivel e Kohei Igarashi, "Takara – La notte che ho nuotato" è un lavoro minimalista ed ermetico che galleggia ai confini del cinema di sperimentazione. Suddiviso in tre capitoli – in ordine: Il disegno, Il mercato del pesce e Un lungo sonno – è un’esperienza circolare che ruota semplicemente attorno a quelle piccole cose e ai piccoli gesti che circondano la routine di tutti i giorni. Eppure, ha una sua grandezza. Lungo gli ottanta minuti circa che costruiscono il film, le riprese raccontano una giornata particolare di un ragazzino di sei anni. Una giornata qualsiasi, che inizia con una sveglia molto mattiniera e prosegue con una piccola avventura. All’inizio tra le mura domestiche, ma poi sempre oltre, andando a scoprire un paesaggio dominato dal bianco della neve. Per un giorno il bambino si comporta da grande girovagando per una città torpida. L’infanzia che cerca i suoi confini ed il legame silenzioso con la figura paterna fanno da tessuto connettivo al racconto. La pellicola avanza completamente muta...Non è mai troppo tardi per tornare con la mente e il cuore indietro nel tempo e vedere il mondo con occhi nuovi. Il viaggio di scoperta è quindi interiore e assolutamente condivisibile. Un percorso leggero come un fiocco di neve che scende lentamente e si lascia guidare dal vento. Di fronte all’invasione di un cinema sempre più artificioso, alla ricerca di colpi ad effetto, Damien Manivel e Kohei Igarashi reagiscomo con un minimalismo quotidiano. Semplicità purissima e incontaminata, quasi quanto il protagonista e gli ambienti. La fotografia è davvero eccellente, non lascia niente al caso, in ultima analisi, dà al film qualcosa in più che sopperisce al mutismo.
"CHE FARE QUANDO IL MONDO E' IN FIAMME?" di Roberto Minervini Nonostante i suoi film non facciano sfaceli di incassi Roberto Minervini è uno dei cineasti determinanti dei nostri anni, uno dei documentaristi più seguiti, imitati ed influenti del mondo. L’unico che per raccontare qualcosa, per far vedere delle persone, una zona del pianeta o qualche evento clamoroso accetta la natura menzognera del documentario e lo gira come un film. Assieme ad altri documentaristi sta rivoltando come un guanto questa forma d’espressione e lo sta facendo a partire dal racconto degli Stati Uniti. Raggiunto il cuore autentico di uno stato disprezzato per il suo 'ritardo', l'autore incontra persone ordinarie che nessuno conosce ma che si conoscono tra loro, perché fanno musica insieme, perché lavorano insieme, perché lottano insieme in una capitale spaccata in due: il nord nero e povero, il sud bianco e agiato. In quel fosso razziale che non si smette di scavare, si inserisce il cinema di Minervini e quell'attitudine a sublimare la realtà tragica senza tradirla. Dragando le acque torbide del Mississippi e del suo paese di adozione, l'autore coglie, con le reti della sua empatia, le figure ambigue ed eloquenti del rimosso. L'other side, in cui abita da sempre il suo cinema, non è il rovescio del décor ma il passaggio rivelatore di una realtà che appassiona e sconcerta, una messa a nudo delle piaghe e delle rovine di un paese vincitore e sempre parzialmente vinto. Ma Minervini non racconta né mistifica, i suoi film descrivono attraverso il quotidiano, passando del tempo con persone vere di cui abbraccia il presente e a cui non attribuisce mai un giudizio a priori. La sua preoccupazione è la restituzione grafica di un contesto di cui è il testimone privilegiato.
"THE BRINK - Sull'orlo dell'abisso" di Alison Klayman Le elezioni Presidenziali statunitensi del 2016 sono state tra le più volgari, populiste, povere e imprevedibili che si ricordino in una democrazia occidentale, con la favoritissima Hillary Clinton che pur prendendo numericamente più voti dell’outsider Donald Trump, andò incontro a una netta e chiara sconfitta. Ma com’è stato possibile un tale risultato tra una delle più esperte e scafate politiche del mondo e uno dei miliardari più discussi e discutibili, senza alcuna esperienza di lotta e amministrazione politica? Il nome dietro il successo di Trump, l’uomo che ne ha rivoluzionato la strategia comunicativa in modo vincente è quello di Steve Bannon. A molti non dirà nulla, ma si tratta di una delle personalità più influenti, intelligenti e potenti della destra mondiale, il vero e proprio deus ex machina che sta dietro molti dei successi di quella destra populista che in Europa e non solo sta guadagnando terreno. "The Brink – Sull’Orlo dell’Abisso", diretto da Alison Klayman, parla di lui, della sua visione del mondo e della politica, di quale sia il suo disegno per il terzo millennio dell’occidente. Steve Bannon è il classico self-made man, il classico prodotto dell’intraprendenza americana, figlio di una famiglia della middle class bianca e di origine irlandese, grazie a tenacia e impegno ha conseguito negli studi e negli affari risultati assolutamente eccezionali. Entrato come banchiere e consulente presso la Goldman Sachs, vi ha costruito una carriera sfavillante, gettandosi anche nell’attività di produttore nel mondo del cinema, è stato co-fondatore di Cambridge Analytica e direttore di Breitbart News, sostanzialmente la mecca internet per ogni militante di destra degli Stati Uniti e non solo. Dall’unione tra Trump, imprenditore e speculatore d’assalto, e Bannon, teorico e persuasore, è nata una forza spaventosa, inarrestabile, mai vista prima nella storia americana. "The Brink" ci guida nei mesi immediatamente precedenti alle elezioni del mid-term, si muove alle spalle di un Steve Bannon intento a consolidare i fili di una rete internazionale di partiti populisti che spazia da Marie Le Pen a Giorgia Meloni, da Orban a Matteo Salvini, dalla Nuova Alleanza Fiamminga al famigerato Farage. Il documentario si caratterizza per la sostanziale neutralità della telecamera, della narrazione, assolutamente passiva rispetto agli eventi, totalmente al servizio di questo pingue e corpulento ideologo e tecnocrate politico. Ma la Klayman fa di più: getta una luce nuova, più eloquente, sull’America bianca, dimenticata, povera, ignorante, vecchia e arretrata che è stata alla base della vittoria di Trump; in tutto e per tutto è l’America dei 50enni, 60enni, che era cresciuta nel mito di Reagan, dell’America come Impero del bene, trionfo del consumismo e della libertà totale. Ora invece si trova a che fare con un’America multigenere e multirazziale, ambientalista, dove sembra sparito l’ascensore sociale, dove il mondo appare un enorme mostro dalle mille lingue apparso per distruggere tutto ciò che conoscono.