“Una forte competitività permea la civiltà greca sin dall'età arcaica. Noi, il mondo occidentale affondiamo le radici nella competitività greca”. Eva Cantarella, studiosa di diritto romano e greco, ricorda un elemento fondamentale dell’eredità culturale giuntaci dal mondo classico durante la conferenza da lei tenuta il 28 maggio in occasione dei Dialoghi sull’uomo, festival di antropologia culturale del contemporaneo svoltosi a Pistoia dal 27 al 29 maggio. Ideato e diretto da Giulia Cogoli e giunto ormai alla settima edizione, il festival quest’anno è stato intitolato L’umanità in gioco: Società, culture e giochi. Lo scopo che la manifestazione si prefigge è offrire a un pubblico estremamente sfaccettato ed esteso a tutte le generazioni approfondimenti e strumenti per comprendere la realtà in cui viviamo. Questa si mostra ai nostri occhi ogni giorno sempre più complessa. I Dialoghi propongono spunti di riflessione che guardando al passato, al presente e al futuro senza mai distaccarsi da quel mondo contemporaneo che il filosofo e sociologo Zygmunt Bauman ha definito “società liquida”. Antropologi, ma anche filosofi, scrittori, sociologi, scienziati, psicoanalisti, sportivi in questa settima edizione spiegano come la cultura nasca in forma ludica perché è attraverso la simulazione, la finzione, il prefigurare situazioni che si costruisce l’umanità. Sono stati tenuti dialoghi, conferenze, spettacoli, film e anche alcuni giochi per parlare di regole e disciplina, ma anche di piacere e felicità, di logica, di azzardo, di avventura e rischio, di simulazione e strategia, di apprendimento ed evoluzione.
Cantarella è autrice di molti volumi tradotti in varie lingue: Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia (1996), Itaca (2002), L’amore è un dio. Il sesso e la polis (2007), Dammi mille baci (2009), L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana (2010), I supplizi capitali (2011), Pompei è viva (con L. Jacobelli, 2013), Ippopotami e sirene. I viaggi di Omero e di Erodoto (2014), Perfino Catone scriveva ricette. I greci, i romani e noi (2014), Non sei più mio padre (2015), L’importante è vincere. Da Olimpia a Rio de Janeiro (con E. Miraglia, 2016). Già in passato relatrice dei Dialoghi sull’uomo, ha scelto di intraprendere un percorso in cui ha condotto l’uditorio attraverso le Olimpiadi e i giochi nell’antichità. L’atletismo greco traeva la sua linfa viale dalla religiosità, dai riti funebri e dai culti eroici. I giochi Olimpici erano senza dubbio i più importanti nel mondo greco, più delle Nemee, delle Pitiche e delle Istmiche. Le specialità atletiche che gareggiavano andavano dalla corsa a piedi su diverse distanze, alla corsa in armi, alla corsa a cavallo, la corsa con i carri, la lotta, il pugilato, il pancrazio. Si trattava anche di un momento di unione, in cui le rissose poleis greche sentivano di appartenere a un’unica civiltà. Le donne erano escluse dai Giochi Olimpici, ma riuscivano comunque a riportare vittorie essendo padrone dei cavalli in gara. Come dimenticare, poi, la famosa corridrice Atalanta e la corsa praticata dalle donne di Sparta, o ancora la gara in onore di Era fondata da Ippodamia? I limiti cronologici maggiormente condivisi dagli studiosi sono il 776 a. C. come anno di nascita delle Olimpiadi e il 393 come anno di morte, quando l’imperatore Teodosio vietò tutti i giochi pagani. La studiosa ha immerso il suo ampio pubblico nel suggestivo mito di origine dei giochi atletici seguendo la narrazione di Pindaro. Enomao, re della città di Pisa nelle vicinanze di Olimpia, aveva una figlia di nome Ippodamia. Poiché non voleva darla in moglie a nessuno si diceva che fosse innamorato di lei. Indisse allora una gara di carri, il cui vincitore avrebbe potuto diventare lo sposo della giovane. Gli sconfitti sarebbero stati uccisi. Il re era in possesso di valenti cavalli donatigli da Fetonte e sapeva bene che nessun concorrente avrebbe potuto batterlo. Tuttavia, un giovane campione di nome Pelope, grazie a un broglio di Mirtilo, auriga di Enomano, riuscì a riportare la vittoria nella gara e a sposare Ippodamia. Dove Pelope venne sepolto si celebrarono in suo onore i giochi atletici. Storie come questa, di eroi, ma anche di dei erano raccontate nell’antica Grecia da aedi e rapsodi. In una società preletterata l’unico veicolo per trasferire la cultura di un popolo nel suo complesso era la poesia. Sono premesse, queste, in base alle quali si ammette che Omero sia un documento storico, una fonte che descrive una cultura nella sua globalità. L’onore dell’eroe, in greco timé, trova la sua affermazione per mezzo dell’aggressività guerriera, ovvero della forza fisica (bia). Coraggio e parola erano altri due valori che rientravano nel modello di comportamento impartito dalla voce dei poeti. I Greci dall’inizio della loro storia ebbero chiaro che la parola è strumento di potere e che grazie a essa e alle qualità appena ricordate era possibile “essere il primo e il migliore tra tutti”, come dice il centauro Chirone ad Achille. Il brutto e deforme Tersite non possiede questi valori, mentre Paride è bello di nascita, ma non è in grado di vendicare i torti che gli hanno fatto, come gli rimprovera Elena. Una tradizione simile è il presupposto dell’affermazione scritta da Pindaro sull’atleta sconfitto, che “torna a casa per oscuri sentieri nascosti”. Un antico greco sarebbe rimasto senz’altro sbigottito nel sentire il principio enunciato da Pierre de Coubertin, fondatore dei moderni Giochi Olimpici: “L’importante è partecipare”.
di Giada Barbera