Città di Firenze
Home > Webzine > Mostra dell'artista messicano Jose Dávila al Museo Novecento di Firenze
mercoledì 25 dicembre 2024

Mostra dell'artista messicano Jose Dávila al Museo Novecento di Firenze

05-07-2018

Fino all'11 ottobre 2018 è in programma al Museo Novecento di Firenze (Piazza Santa Maria Novella, 10) il secondo appuntamento del ciclo Duel ideato dal direttore artistico Sergio Risaliti.  Protagonista della mostra, Not all those who wander are lost (fino all’11 ottobre), a cura di Lorenzo Bruni, è l’artista messicano Jose Dávila, alla sua prima mostra personale in una istituzione italiana. Come nella precedente edizione – che aveva visto protagonista Ulla Von Brandenburg – l’artista invitato ha scelto un’opera tra quelle conservate nelle collezioni del museo fiorentino (Mario Radice, Composizione C.F. 124, 1939) e a partire da questa ha elaborato un progetto site specific in dialettica sia con il dipinto che con gli spazi del museo, in particolare con la cappella sconsacrata al piano terreno dell’edificio.

La mostra di Firenze è un’occasione unica per conoscere il lavoro di Jose Dávila, uno degli artisti della sua generazione più attivi nel creare relazioni inedite tra il gesto scultoreo e la definizione dello spazio architettonico, tra la riattivazione della memoria collettiva e la contemplazione dell’istante, del kairos nell’esperienza diretta della realtà e dell’arte.

Attraverso l’installazione di opere appartenenti a momenti diversi della sua ricerca, Dávila invita a riflettere su come possano essere interpretati i segni e le tracce che abitano il mondo globale attuale – in molti casi appartenenti alla storia dell’arte – e sulla necessità di dare importanza alla riscoperta o alla riappropriazione diretta di essi, con l’intento di sfuggire alla mera riconoscibilità dei loro elementi costituitivi ottenuta per mezzo dei dispositivi elettronici che fungono da archivi digitali. L’artista spiega così la scelta del titolo Not all those who wander are lost (Non tutti quelli che vagano sono persi) che evoca naturalmente la ricerca di una nuova identità collettiva: “Io faccio parte delle persone perse in questo vagabondaggio fuori dalla storia. […] L’arte è un vasto universo in cui puoi muoverti senza una destinazione finale, ed è per questo che non sei smarrito del tutto in esso. Infatti lo scopo è quello di chiedersi e di continuare ad interrogarsi sulle cose e non solo di trovarle. Questa seconda mostra del ciclo DUEL conferma la volontà degli artisti affermatisi dai primi anni Duemila di riflettere sulla necessità di un nuovo confronto con l’eredità del modernismo e di riattivare il serbatoio della memoria collettiva per individuare nuove prospettive di senso e di appartenenza”.

Le opere in mostra agiscono tutte sulla ricerca dell’equilibrio tra opposti come moderno e classico, caldo e freddo, morbido e duro, materiale e immateriale, pesante e leggero. La convivenza dei contrasti è pensata da Jose Dávila per dare maggiore importanza all’istante della fruizione, a come vengono osservate e condivise le forme in questo caso della scultura.

Le due opere Aporia I e Aporia II, entrambe del 2017, consistono in un particolare tipo di assemblaggio grazie al quale una lastra di vetro semitrasparente viene posta in verticale al centro dello spazio. Il visitatore è coinvolto in una percezione anodina tra preoccupazione e sicurezza, perché il vetro è tenuto saldamente in piedi da un sistema di ancoraggio che si serve di pesanti elementi di marmo o di singoli macigni che oppongono resistenza e impediscono alla lastra di cadere. Si tratta di una tensione tra materiali differenti per provenienza ed uso che trasforma la scultura in uno strumento di filtro della realtà – tramite il vetro – ma anche in un dispositivo di amplificazione percettiva della dialettica tra effimero e permanente, tra l’istantaneità del gesto e l’eternità del monumento. L’urgenza di Dávila di suscitare riflessioni si manifesta anche nella scelta dei titoli: ad esempio Aporia – l’opposto della pratica tautologica proposta dagli artisti concettuali nord americani degli anni Sessanta – e Daylight found me with no answer del 2013.  Una leggera ironia è alla base di questa invenzione di cinque metri di lunghezza per un diametro approssimativo di tre metri. Davila si prende gioco della tradizione monumentale del secolo precedente realizzando un assemblaggio di vari tubi colorati per disegnare nell’aria il segno dell’infinito. The Origins of Drawing VII del 2017 sposta invece l’attenzione sulla necessità di interpretare le tracce lasciate dall’umanità, sia che si tratti di un quadro monocromo modernista, che di un disegno dell’età preistorica realizzato sulle rocce di una caverna.

Per il suggestivo spazio della cappella, Dávila ha immaginato un’installazione che consente di amplificare il contesto spirituale del luogo, individuando prospettive che vanno al di là del rito cristiano, ripensato al tempo delle post-ideologie. Il titolo Joint Effort – che potrebbe essere tradotto con “sforzo congiunto” – mette in evidenza la tensione tra elementi differenti come pietre, cinghie meccaniche da ancoraggio e trasporto delle merci, una lastra di vetro. La scultura si fa mezzo di connessione tra lo spazio mentale e quello fisico, tra osservare ed esperire. La dialettica e l’equilibrio raggiunto tra elementi e forze opposte ci ricorda la necessità di condivisione dei valori e delle esperienze con l’altro da sé, al fine di rendere reale un cambiamento e una trasformazione della realtà stessa.

La mostra Not all those who wander are lost è concepita dall’artista non come una esposizione di opere singole, bensì come una narrazione unica e organica, come spiega Dávila al curatore Lorenzo Bruni: “In questa mostra di Firenze tutte le opere ruotano attorno alla nuova consapevolezza che la mia generazione deve prendere in esame quando deve confrontarsi con il sapere. Ho affrontato tutto ciò a partire da un dialogo con l’opera di Mario Radice del 1939 scelta tra quelle nella collezione del museo. Ci sono due motivi per cui mi ha colpito quest’opera. Il primo è collegato al periodo storico in cui era attivo Radice e che era il ventennio fascista. È un periodo che ho studiato molto soprattutto per il contributo degli architetti razionalisti come Terragni a cui il pittore originario di Como era molto legato. Partendo da questo dialogo ho provato a creare un’apertura, una finestra, differente con cui osservare il tempo presente, attraversato da varie forme di populismo e di conservatorismo estremo. L’altro motivo è legato alla riflessione sui codici astratti della mia intera pratica. Ho voluto osservarla a partire da un nuovo punto di vista del tutto inusuale per mezzo della presenza del gesto storicizzato, ma anche a-storico di Mario Radice. Per me, però, non si tratta solo di un processo concettuale, bensì di una riattivazione dei sensi. Ecco perché è importante da sempre nella mia pratica lavorare sul modo di percepire le forme astratte e non solo di crearle. Punto sempre a rendere evidente il loro peso e la loro gravità e di conseguenza a trasformare in esperienza attiva il dialogo con lo spazio”.

Per maggiori informazioni: www.museonovecento.it