Amante della libertà o pensatore maledetto. Uomo di Stato, fedele alla sua patria, o individuo senza scrupoli alla ricerca del potere. Chi è stato in effetti Niccolò Machiavelli?
Venerdì 5 aprile 2019, alle ore 17.30, alla
Biblioteca delle Oblate di Firenze (via dell'Oriuolo, 26) per la
rassegna "Leggere per non dimenticare" è in programma la presentazione del libro
"Machiavelli. Ragione e pazzia" di Michele Ciliberto (Laterza, 2019). Presentatori: Andrea Battistini e Massimo Cacciari.
Machiavelli è stato in genere interpretato come teorico della ragione politica, ed in effetti è straordinaria la capacità con cui analizza le situazioni, i rapporti di forza, le alternative in campo individuando la migliore soluzione possibile. Ma non è solo questo: è anche un visionario, capace di sporgersi oltre le barriere dei canoni correnti, di vedere al di là delle situazioni di fatto, di proporre soluzioni ‘eccessive’, straordinarie: appunto, «pazze». Non per nulla Filippo Casavecchia gli attribuisce capacità profetiche, che del resto Machiavelli si riconosce – in modo laico, però, senza alcuna inflessione di tipo religioso: come capacità non comune di prevedere cosa sarebbe, infine, accaduto.
‘Pazzia’, ‘pazzo’, sono lemmi centrali nelle sue opere, specie nei suoi testi teatrali, in una duplice accezione. Pazzia come mancanza di senso della realtà, come stravaganza senza senso, addirittura come idiozia: fare le cose «alla pazzeresca», come dice nella Mandragola, gli è completamente estraneo. Ma la pazzia può essere un’altra cosa: capacità di contrapporsi alle opinioni comuni, di rischiare il tutto per tutto inerpicandosi sul crinale che divide la vita dalla morte, di combattere affinché le ragioni della vita – cioè della politica, dello Stato – possano prevalere sulle forze delle crisi, della degenerazione, della fine: pur sapendo che sarà infine la morte a prevalere sulla vita, perché questo è il destino di ogni cosa. In questo senso Machiavelli è – a modo suo, e in forma positiva – ‘pazzo’: «plurimum estravagante di opinione dalle commune et inventore di cose nuove et insolite», come gli dice – ammirato, ma con una punta di preoccupazione – Guicciardini, per tanti aspetti così diverso da lui, e diffidente verso ogni forma di pazzia (con l’eccezione, forse, di quella di Savonarola).
La pazzia di Machiavelli non ha nulla in comune con il fare «alla pazzeresca». Anzi, è lo sforzo estremo, e massimamente programmato, che l’uomo fa per non soccombere e continuare a vivere, contrastando i colpi sia della fortuna che della morte. ‘Realismo’ e ‘pazzia’: è in questa tensione mai risolta che sta il carattere non comune, anzi eccezionale, dell’esperienza di Machiavelli rispetto ai suoi contemporanei, anche agli amici più vicini che lo guardano con occhio sorpreso, turbato e perfino preoccupato, senza però mai scalfire le sue opinioni. È una pazzia totalmente laica e mondana – parte integrante della politica e dell’arte dello Stato: senza alcun contatto con la follia cristiana di cui Erasmo, che pure Machiavelli può aver letto, è nel primo Cinquecento il massimo rappresentante. Sono due concezioni senza alcun contatto, totalmente diverse.
Nel caso di Machiavelli, il riconoscimento della necessità di azioni «audaci», «inusitate», «strane» – cioè «pazze», «eccessive» – scaturisce dalla consapevolezza dei limiti della ragione, della prudenza, dell’esperienza, quando le cose sono mutate e variate in maniera tanto profonda da non consentire di procedere secondo criteri ordinari, normali.
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