Da sempre, il colore è un elemento caratterizzante le autorappresentazioni della civiltà. Ogni comunità, per tradizione, esibisce bandiere e gonfaloni delle più svariate fisionomie, vessilli rappresentativi delle diverse contrade, rispolverate in occasione di commemorazioni, festività, rivisitazioni storiche. In questo, Firenze non fa certo eccezione.
Tuttavia, al di là degli aspetti folclorici, ci sono colori che contrassegnano in modo ancor più sostanziale il volto del nostro territorio, chiamando in causa la stessa essenza degli edifici e delle strade che lo attraversano. All’ombra delle chiese e dei palazzi storici del centro, prevalgono le venature dei marmi e le sabbiose luminescenze della pietra. Passeggiando nei vecchi quartieri popolari e lungo le principali arterie che si diramano fuori dalle mura cittadine, si incontrano i gialli e i rosati delle facciate, costellate dal rosso opalescente dei coppi e delle tegole in cotto.
Seduto in uno dei giardini de Le Piagge, in questo luminoso pomeriggio di giugno, aspetto i miei compagni di avventura, per addentrarci in una nuova tappa di Corto Piaggese, e tutto intorno a me si distendono a perdita d’occhio il verde e il grigio. Prati e cemento. Questi sono i colori della periferia. In mezzo ai palazzoni di via Lombardia, all’altezza della strada, si para davanti a noi un’oasi iridescente.
Qualcosa di completamente diverso, qui alla fine del mondo.
Un caleidoscopio, si apre intorno a noi, appena mettiamo i piedi sul selciato ciottoloso della piazza Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Un brulichio di persone anima questo dedalo di assi di legno e pareti prefabbricate, un vivace suq, tenuto insieme da cartoncini bristol colorati e bandiere arcobaleno. Siamo entrati nella Comunità di Base de Le Piagge. Per avere un’idea di che cosa sia oggi la Comunità fondata venticinque anni fa da Don Alessandro Santoro è necessario orientarsi con una cartina, come quella disegnata da Diego Abad, in modo simile a quando ci si addentra nei sotterranei ferrosi della metropolitana di una grande città. In questo caso, però, siamo alla luce del sole, in un groviglio di percorsi costruiti pazientemente giorno per giorno. Sono i solchi scavati dai veri protagonisti di questo progetto, tutte le persone che hanno condiviso un pezzo di strada accanto ad Alessandro, il prete, come qualcuno lo apostrofa sorridendo:
“bisogna che lo chiami così, se no me ne scordo che l’è un prete, perché potrebbe essere i’ mi’ fratello”.
Tutto nasce da un muretto, eretto a Natale 1994 in via Lazio: non per dividere, né per contenere, bensì
per promuovere le potenzialità del quartiere con particolare attenzione alle situazioni di disagio, di bisogno e di mancanza di diritti che in esso si trovano
vale a dire con l’intento di edificare, all’estrema periferia della città, una comunità di persone vere.
I numeri fotografano in modo impietoso la portata della marginalità e dei bisogni sociali del quartiere:
il 10% della popolazione carceraria di Sollicciano, 95 sui complessivi 850 detenuti, proviene da Le Piagge. Solo in Via Liguria, la zona a più alta densità popolare, dove in 320 appartamenti vivono, con un reddito medio pro-capite di 650 euro, 1050 persone, 130 famiglie hanno attualmente a che fare con la giustizia. A questo si aggiunga che 7 famiglie su 10 sono a vario titolo seguite dai Servizi Sociali, che la percentuale di abbandono scolastico prima delle scuole superiori interessa ben 8 ragazzi su 10, e che la disoccupazione giovanile, nella fascia di età tra i 18 e i 28 anni, raggiunge il 56%.
Due sono le cose da fare, in un quartiere come questo – sottolinea don Alessandro - lavorare sulle persone, perché diventino persone vere. E lavorare sui posti perché diventino posti belli. Che parlino del bello che c’è in voi. Perché io qui ho trovato tante cose belle.
L’ampio tessuto associativo generato dalla Comunità può contare sulla collaborazione e sul sostegno dei Servizi Sociali del territorio, le numerose azioni messe in campo si enucleano intorno a due snodi principali. Il primo è senz’altro quello dell’educazione, per contrastare la dispersione scolastica, ridurre le distanze socio-culturali, costruire percorsi di integrazione e crescita personale, offrire una seconda occasione: questo posto esiste perché ciascuno di voi possa imparare a scegliere cosa fare nella vita, senza farsi fregare. Che possa avere l’opportunità di stare dritto in piedi, anche di sbagliare, ma con la sua testolina, e possa sapere che non è solo, quando decide da che parte andare. Il problema che hanno in molti è la mancanza della capacità di sentirsi voluti da qualcuno.
Questo posto nasce perché ognuno di voi possa dire: questo posto è anche un po’ mio. Questa cosa l’ho costruita anch’io. Questo posto respira anche di me. E mi riguarda, mi interessa, mi sta a cuore.
Il secondo è quello della rigenerazione, lo stimolo e la riscoperta delle potenzialità di tutte quelle persone che, dopo essersi confrontate con situazioni di disagio familiare, marginalità sociale, problemi di dipendenza, possono conoscere nuove opportunità di lavoro e di relazione, capaci di restituire loro dignità e valore:
Siccome abbiamo riconosciuto che noi siamo persone che sono state scartate, dagli scarti vogliamo ricominciare per ridare vita. Abbiamo imparato a ridare vita a noi stessi, allora vogliamo fare lo stesso anche con le cose: alle cose che noi scartiamo noi vogliamo ridare vita, ridargli valore. È diventato il nostro lavoro. Quello che ci permette di dare lavoro a un po’ di persone, che permette alle persone di reinserirsi quando hanno qualche problema.
Dopo aver scambiato due parole con Tiziana, e curiosato tra gli scaffali della Bottega delle economie equo-solidali, ci sediamo in cerchio, insieme a don Alessandro, a Francesca, ai ragazzi del doposcuola, e agli educatori Marco e Stefano.
- Voi in questo quartiere ci siete nati, e io vi ho visti nascere
esordisce il prete
- Io sono nato a Careggi
puntualizza spavaldo E., 10 anni, piaggese di Albania, che ci tiene a mettere subito le cose in chiaro con questa banda di strani tipi venuti da fuori.
Francesca è la prima a prendere la parola, e raccontare a noi e ai ragazzi la storia del quartiere dove sono nati e cresciuti. La sua voce tenue e cadenzata, in controluce, con il sole che si rifrange sotto al pergolato, crea un’atmosfera simile a quella dei racconti che si fanno intorno al fuoco:
Qui dove ci sono le vostre case, nella metà degli anni ’70 non c’era niente di quello che c’è ora. C’era soltanto l’argine del fiume. Non si vede, ma laggiù c’è l’Arno, lo sapete. Qui erano le zone dove c’erano un sacco di alberi, ma proprio tanti, come quelli. E c’erano parecchie buche nel terreno, che si riempivano d’acqua, perché sotto questa zona c’è tanta acqua, che scorre sotto, perché c’è il fiume. E la gente che viveva a Brozzi, nella parte vecchia, veniva qui, tipo, la domenica d’estate, a fare il bagno in queste pozze, a passeggiare, o a prendere le rane… era tipo la campagna di Brozzi, anzi, era la spiaggia. Infatti si chiavano Le Piagge.
Poco lontano da dove siamo ora, tra i bracieri fumanti e le papere starnazzanti del parco Chico Medes, riecheggia ancora una vaga memoria di quel tempo passato.
In quegli anni, a Firenze, come avveniva un po’ in tutta Italia, stavano arrivando tante persone da altre regioni, dal Sud soprattutto. Venivano a cercare lavoro, un futuro migliore. E quindi c’era tantissima gente che non aveva la casa. E anche persone che vivevano a Firenze da prima, cominciavano ad essere sfrattati dalle loro case. C’erano tante famiglie che avevano bisogno di una casa. Allora, il Comune di Firenze, con dei soldi che arrivavano da dei finanziamenti dello Stato italiano, fece un progetto per costruire delle case in tutta questa zona. Però c’era un problema: tutta questa zona è più bassa rispetto all’argine del fiume. È una zona, si dice, di esondazione dell’Arno. E quindi, secondo le regole del Comune di Firenze, non ci si poteva costruire case. Nonostante questo, costruirono queste case in fretta e furia, senza stare troppo attenti a come venivano costruite. Non vigilarono sui lavori, né su chi li aveva progettate. E quindi venne fuori delle case così così. Tanto che dopo venti anni le Navi sono state completamente rifatte: svuotate completamente, e rifatte nuove. Almeno quelle in via Liguria.
Però la cosa più strana, è che in pochissimo tempo vennero fatte venire ad abitare qui tantissime persone che non si conosceva tra di sé, e che avevano difficoltà di tutti i tipi. Però, qui non c’era nulla che potesse aiutare le persone: non c’era l’autobus, non c’erano scuole, non c’erano negozi, non c’erano i servizi sociali. Non c’era niente di niente.
Nel 2000, ancora, prima che ci fosse internet, c’era un librettino, che si chiamava Tuttocittà, che veniva distribuito gratuitamente in tutte le case, e dove c’erano tutte le mappe e tutte le vie della città di Firenze. Ecco, Le Piagge non c’erano sul Tuttocittà. Sono apparse su Tuttocittà solo dal 2002-2003, per tanti anni non esistevano.
Per molto tempo, e in parte succede ancora, il resto dei fiorentini vedevano questa parte della città un po’ con sospetto.
A Le Piagge i cittadini che abitavano in altre parti di Firenze non ci venivano, perché non c’avevano motivo di venire a Le Piagge, non c’era niente. E quindi, di solito, quando non si conosce qualcosa, ci s’ha un po’ paura. E tanti ragazzi che sono venuti a Le Piagge quando avevano la vostra età, sono cresciuti con questa sensazione di essere un po’ tenuti da parte da parte del resto della città. E loro stessi, avevano paura ad uscire da qui ed andare nel resto della città, si sentivano fuori luogo. E le cose sono andate così per tanti anni, lo stesso Comune di Firenze, per tanti anni non si è occupato di questa zona, fino a che poi, è cominciato piano piano a cambiare qualcosa. S’è cominciato a costruire qualche cosa. Le Piagge sono diventate quello che sono adesso: però avrebbero bisogno ancora di tanta cura, e di tanta attenzione, perché le persone che ci abitano ci possano abitare bene. Cura e attenzione anche da parte delle persone che ci abitano, non solo dalle istituzioni.
Alessandro è arrivato a Le Piagge nel 1994, con una sola richiesta: vengo qua, ma voglio vivere come vivono tutti, in una casa popolare.
Ci racconta tre flash, tre storie che hanno segnato il primo impatto con la gente del luogo, tre incontri significativi concentrati in appena una settimana, la prima passata nel quartiere.
Sono arrivato un giorno di novembre, e sono entrato dentro una delle case popolari, in via Liguria, che mi era stata assegnata perché quella casa non la voleva nessuno. Per un anno e mezzo, la casa era rimasta chiusa, tanto che sulle pareti ci erano cresciuti i funghi. Si era rotto un tubo dell’acqua. Il gesso, lo sapete, assorbe l’acqua. Era tutto chiuso, e non c’era soltanto la muffa, c’erano proprio i funghi. Quindi, quando dovevano assegnare quella casa, aprivano alla famiglia che in graduatoria doveva essere assegnataria, e questi se ne andavano. Quando sono arrivato qua, c’era questa casa che era tutta da sistemare. Mi ci sono infilato dentro, ho tenuto aperta la porta, e improvvisamente arriva da me una ragazzina, che abitava di fronte, con una specie di materassino da campeggio sotto braccio. Mi fa:
- Te, chi sei?
- Sono Alessandro, sto qui.
- Ma posso stare qui con te?
- Vieni, vieni, dammi una mano… Questo sarà stato il secondo pomeriggio che ero qui. Poi, con questo materassino sotto braccio, siamo arrivati a sera. Le ho detto:
- Sarà l’ora di tornare a casa…
- No, ma io non torno a casa. Posso rimanere a dormire qua?
Ed è rimasta qua. Ha steso questo materassino, abbiamo improvvisato. Le ho detto:
- Bisognerà avvisare la mamma
- Sì, ma io non posso avvisare la mamma, anzi, se sto fuori è meglio.
Io li per li, boh, non capii. Presto, però, capii che questa bambina veniva sempre, si era affezionata, così, senza nemmeno conoscermi. Insomma, questa bambina, capii, andava a scuola. Però tante volte non ci andava, perché la mamma non riusciva a svegliarla. Perché la mamma, tante volte, lavorava. Lavorava in casa, lavorava di notte. Aveva due figli, un marito, che la faceva lavorare, la notte: andava con altri uomini, a casa. Con altri uomini dello stesso palazzo. Lavorava organizzata da qualcuno. E li, cominciai a capire, che c’erano nel quartiere delle organizzazioni sotterranee, di vita, di modi di vivere. Questo di fronte a me. Questo è stato il primo impatto.
Secondo impatto: una signora, passava sempre li, da casa mia. Una volta entrò in casa e mi disse:
- Non è mica tanto bello che tu stia qui, che ti si vede tutto, con tutte queste finestre così grandi. Io ti voglio fare delle tende, perché a me non mi piace che tu debba stare qua, così.
- Come mi fai delle tende? Ma non ci conosciamo nemmeno…
- Si, si, ma guarda: io sono buddista, per cui te non cominciare a fare storie, a provare a convincermi!
Una brava donna, con tre figlioli, di cui uno era già ben invischiato tra carcere e tossicodipendenza, che poi è morto. A lui ci sono stato tanto dietro, tanti anni. Un ragazzo bellissimo, tra l’altro, bello anche dentro. Però completamente perso. Passava da un carcere all’altro. Non c’era verso. La roba, quella, era proprio più forte, troppo più forte. E lei mi si mise a fare queste tende, allora io le chiesi di raccontarmi delle cose del quartiere. E la cosa che mi fece più impressione era che lei mi diceva:
- Macché tutti problemi… Te, tu vedi tutti i problemi, perché tu ci sei arrivato ora. Ma tu sapessi all’inizio!! Era tanto bello
– mi diceva –perché tra di noi c’era solidarietà, però tu sapessi…
E mi racconta dei vialetti di cemento, in mezzo ai giardini, che ciascuno di noi attraversa per spostarsi, tra una Nave e l’altra. Ecco, tutti quei vialetti non c’erano, e quando usciva di casa, la gente usciva con gli stivaloni, perché non c’era verso di uscire di casa senza passare dal fango. La gente usciva di casa con le calosce, con il sacchetto con le scarpe, perché andava in farmacia, che era sempre da un’altra parte, a comprare il pane, che era sempre da un’altra parte, alla fermata dell’autobus, che era sempre più in la. E doveva attraversare questi giardini pieni di fango.
La gente pattinava, letteralmente, in mezzo a queste valli di fango, ogni volta che metteva il naso fuori di casa. Poi arrivava alla strada, si toglievano questi stivaloni, li rimettevano nella busta, e si mettevano le scarpe. Quindi voi, immaginate, quando la gente diceva: io sto alle Piagge.
Tra il malaffare, il casino, il fango, lo schifo, che ci poteva essere, avevano introiettato l’idea che… era meglio non dire che si stava a Le Piagge. Perché venivano subito etichettati come quelli che se erano stati messi li era perché erano dei disgraziati.
Terza storia.
Dopo una settimana che ero a Le Piagge, arriva una signora, che abitava nel mio stesso corridoio, con una bambina per mano: era sua figlia più piccola. Entra a casa mia sbraitando:
- Sono stata a parlare con le maestre! Questa bambina non fa nulla, non mi compiccia nulla! Lei deve studiare! Te la lascio a te! Gli fai scuola te! Bum. E me la lascia li. Da quel momento in poi, è cominciato il doposcuola delle Piagge. A casa mia. Però cos’ho fatto: lei mi lascia questa bambina, vi potete immaginare i suoi occhi gonfi. La signora aveva fatto già metà corridoio, quando io la richiamo, e le faccio:
- Io glielo faccio il doposcuola. Ma te lo fai insieme a lei, con me. Il doposcuola lo facciamo io e te, insieme. E cominciamo così. Io e questa mamma, che non sapeva una mazza di doposcuola, e che faceva un gran casino, abbiamo iniziato il doposcuola: su un tavolo che ancora ho a casa, e che sarebbe bellissimo da vedere, perché se lo rovesci sotto ci sono tutte le scritte, tutte le firme di tutti i ragazzi che sono passati dal doposcuola, in 25 anni.
Ogni storia ha la sua morale. In questo caso, si tratta di episodi, ma la morale di Alessandro è la stessa per tutte e tre:
Quando sono arrivato qua, io ho capito questo, che è poi la storia di questa comunità: perché un quartiere possa cambiare, si fa insieme alle persone che vivono quei problemi. Io mi ero accorto di questo: un quartiere non cambierà mai, se arriva qualcuno che viene a dare dei servizi a quel quartiere, e vi dice: vi manca questo? Ve lo do io, ve lo porto io. Quel quartiere non cambierà mai.
Parliamo con i ragazzi. Nei loro racconti non c’è traccia delle scorie di quella che sembra un’epoca ormai lontana.
Loro del quartiere sembrano conoscere solo l’amicizia, gli spazi aperti, i colori forti di tramonti fantastici, dietro ai palazzoni, nel tardo pomeriggio d’inverno, tornando verso casa. Ci sono i ricci, dappertutto. E le rane. Qualcuno giura di aver visto perfino qualche lucciola. Soprattutto, a Le Piagge non mancano mai le persone.
Tante e varie, di tutti i colori e di tutte le culture.
Stefano, uno degli educatori che presta servizio al doposcuola, descrive questo posto come un luogo aggregante, che accoglie. Mi colpisce questa cosa che le persone qui sono molto unite.Dall’altra parte però c’è il pensiero di dover essere per forza quello che figura più forte rispetto a quell’altro. Quella cosa che diceva prima Alessandro, che agli inizi Firenze in qualche modo escludeva le piagge, ora si è un po’ trasformata… è come se ora i cittadini delle piagge, di fronte ai restanti cittadini fiorentini, sentissero il bisogno di dimostrare di essere qualcosa di più. Per questo il quartiere è aggregante per quelli che ci sono dentro. Per certi aspetti, escludente per quelli che sono fuori. Questa realtà che è stata costruita qua, che è il centro sociale, aiuta proprio ad evitare questa cosa, è un modo per gettare un ponte, cioè cercare di alimentare amicizie al di fuori delle piagge, per far conoscere altre cose. I progetti che abbiamo noi di R.e.Te, servono proprio a questo: ad uscire da questo quartiere.
Matteo, è un ragazzo che arriva nella Comunità per una messa alla prova, una vecchia questione. E qui rimane, a spendere il suo tempo con i ragazzi del doposcuola. Ho conosciuto il quartiere quando faceva il fattorino Io lavoravo al Runner Pizza, e quando consegnavo le pizze qua ero il più contento. Questo era l’unico posto di Firenze in cui pagavano doppio. Come quando si portava la consegna ad un altro comune. A me questa cosa mi è sempre rimasta impressa. E mi ricordo anche che qua mi davano sempre la mancia, nonostante fossero, nella maggior parte dei casi, gli appartamenti meno facoltosi in cui mettevo piede. Io vedevo lo sforzo della persona che, palesemente, non aveva granché da dare. Eppure anche 50 centesimi non mancavano mai. E questa cosa io me la ricordo bene, perché quando lavoravo al Runner pizza, quando chiamava qualcuno da Le Piagge, per me era una festa. Chi, come lui, viene da fuori, testimonia un contrasto fortissimo, tra il senso di chiusura e di isolamento che si percepisce all’esterno, e quello di apertura e inclusione che si respira una volta che si ha modo di soffermarsi nel quartiere più a lungo.
Quando arrivo dalle Cascine, cioè dal centro di Firenze, mi colpisce che non ci siano accessi. A differenza di altri quartieri, come Peretola, Brozzi, Quaracchi, che sono immediatamente visibili dalla strada, qui c’è una sorta di muraglia di alberi o case vecchie, che in qualche modo lo tengono nascosto. Dalla via Pistoiese a qua ci sono a malapena due accessi, la maggior parte delle volte li passi senza nemmeno accorgertene, e allora ti ritrovi a San Donnino e devi tornare indietro. Una ricerca di un senso di comunità al di la dell’isolamento in cui sei stato predisposto, anche urbanisticamente, senz’altro mi sembra che caratterizzi tanto questo quartiere. Se è vero che non si fa niente senza le persone, è vero che sono anche queste stesse persone a condizionare il modo in cui una realtà si finisce per rappresentare, e il fatto che questa effettivamente sia aperta. Io prima di arrivare qua, sapevo di cose, come il fatto, ad esempio che ogni tanto veniva dato fuoco al camion con cui andavano a raccogliere il ferro, giusto per dire. Si è saputo chi è stato? Si. È stato denunciato? No. Perché poi non è quello che viene fatto, cioè non è una forma repressiva quella che viene messa in atto, anche quando hai a che fare con qualcuno che sta dando fuoco alla tua unica fonte di reddito, con la quale fai i progetti di inclusione. Piuttosto, ci si va a parlare. Questo posto non è mai stato chiuso, blindato, nemmeno nei momenti in cui sembrava necessario farlo. Non ha visto un cancello, una recinzione.
Cose come questa, questo senso di apertura, di incontro, fatto attraverso un intervento sui luoghi che avvicini le persone, dalle viottole che si raccontava prima a un prefabbricato messo qua, è in effetti determinante. Infatti si chiama piazza, questo posto. Nel bene e nel male, le persone qui ti danno delle botte di delusione enorme, oppure ti aprono il cuore. In ogni caso sempre sensazioni forti, potenti. Qua mai banalità. Le persone hanno la luce negli occhi, anche se qui la dura è vita. La dura è vita.
Un lapsus bellissimo, non voluto, ma che in una frase sola mi sembra capace di rappresentare questo quartiere a colori, qua, alla fine del mondo, meglio di qualsiasi parola abbia scritto finora.
Fonte: www.serviziinzona.it