Bisogna infatti guardare a queste tre sculture come ad altrettanti, grandi disegni solidificati nello spazio: c’è l’ingombro dell’opera scolpita ma non c’è la massa, non c’è il corpo, che si può solo immaginare dato che vediamo unicamente il profilo che lo delinea. Lo scultore qui non modella ma disegna; realizzando una maquette che poi un processo meccanico amplifica nelle dimensioni volute, mutando anche i materiali impiegati. Un simile processo non arriva all’immagine ma crea una ossatura che delinea un vuoto, aprendo però alla percezione fisica di esso; l’opera volendo si può attraversare, si può “vivere”.
Non c’è nulla di trasgressivo in questo procedimento, Limonta si collega ad una genealogia nobile, che vede grandi artisti cimentarsi in una pratica di decostruzione, dissezione, alleggerimento, sospensione dell’opera scolpita per farla interagire con lo spazio in modo più pregnante, più articolato e multiforme di quanto succede col tradizionale “tutto tondo” posto al centro di una sala espositiva. Fausto Melotti, Alexander Calder, Robert Morris, Luciano Fabro, Gilberto Zorio, Eliseo Mattiacci sono solo alcuni dei protagonisti che potremmo citare in questo senso.
Un tratto comune fra simili precedenti e il più giovane Limonta è la scelta di rendere pienamente visibili i nessi costruttivi della scultura, il modo in cui è costruita, in cui sono assemblate le sue componenti. “L’opera si deve dare a vedere all’osservatore senza infingimenti – spiega Giorgio Verzotti, curatore delle installazioni – Certo, si tratta di adottare il linguaggio della scultura per portalo ai suoi limiti, oltrepassati i quali svanisce la specificità del linguaggio stesso, ma Limonta intende stare all’intero della disciplina, e lo dichiara apertamente, pur portando i suoi postulati alle loro estreme conseguenze e proprio per questo confermandone la validità”.
“Tutti i miei lavori – spiega Sergio Limonta – e tutti i materiali che uso in quello che faccio sono sempre presi nella loro natura e non modificati, usati ma non modificati. Per cui non ci sono mai materiali dei quali non si capisce l’origine o non si capisce la lavorazione. Mi viene sempre in mente una frase di Luciano Fabro che diceva “fare chiarezza”, intesa all’ennesima potenza, legata proprio a un rapporto tra lui artista e le arti e l’arte e forse anche al suo tempo. E la
chiarezza la fai anche con un’opera che in tutti i suoi aspetti si mostra senza artifici. Sono già rilevanti e sorprendenti tutti gli accadimenti che convergono in quell’episodio che poi chiamiamo “opera”, che infatti poi si offre alla lettura di tutti ma mantiene sempre una sua parte che può non essere colta, che rimane segreta. Io penso che il processo dell’arte abbia degli aspetti intuitivi importantissimi, altrimenti diventa giornalismo”.
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